Capitolo 13: L'Illuminismo: metodo scientifico e letteratura
Paragrafo 4: Letterati e critici: Algarotti, Gasparo e Carlo Gozzi, Bettinelli, Baretti. Cesarotti e il problema della lingua


Potrebbe sembrare strana l'affermazione che il cosmopolitismo degli illuministi italiani rinforza il loro carattere nazionale. Eppure in quanto serve a fare prendere coscienza della necessità di disfare la tradizione culturale italiana indistinta e generica — e perché tale facilmente egemonizzata dalla Chiesa — e a sviluppare da essa nuclei moderni e laici, scientifici e forniti di un metodo, il cosmopolitismo rappresenta lo strumento di rottura per creare aggregazioni omogenee attraverso miti e ideali che distinguano la tensione italiana dall'accorpamento sovranazionale compiuto dal papato.
Nella critica letteraria la polemica antiaccademica, antipedantesca, il gusto di una prosa sciolta da impacci e funzionale alle idee, la divulgazione alquanto mondana della nuova scienza fanno del veneziano Francesco Algarotti1 (1712-64) un rappresentante della nuova cultura. Dai maestri bolognesi Manfredi e Francesco Maria Zanotti derivò l'amore per la scienza astronomica, dai viaggi compiuti in Francia, Germania, Inghilterra, Russia e dai grandi personaggi conosciuti (Voltaire, Federico II di Prussia, Alessandro III di Sassonia) apprese le idee nuove e soprattutto l'arte di mediarle e di comunicarle in forme letterarie adeguate come il «saggio» breve ed elegante, il verso sciolto.
Con questo verso seppe scrivere sopra il commercio ma soprattutto nelle prose del Newtonianismo per le dame (1737), espose in modo gradevole e brillante le teorie ottiche di Newton affinché il pubblico delle donne sapienti potesse intenderle. Libera letteratura in libere istituzioni fu il suo ideale di cosmopolita amante dello spirito italiano, di scrittore alleggeritosi dalla pesantezza del classicismo tradizionale con la frequentazione di intellettuali «filosofi» e raffinati.
L'ispirazione galante è nel romanzo erotico Il congresso di Citera (1745) che ricorda il celebre Tempio di Cnido di Montesquieu mentre nei Viaggi di Russia è spregiudicato osservatore di politica e di cultura. Scrisse anche di pittura, architettura, musica, commercio disinvoltamente e con eleganza cercando sempre di far conoscere idee e non parole; né gli mancò la consapevolezza di essere iniziatore di un nuovo genere di letteratura.
Condizionato, invece, dall'ambiente in cui immobilmente visse, dallo stato di aristocratico decadente ed economicamente dissestato fu il veneziano Gasparo Gozzi2 (1713-86). L'ambiente era quello di un moderatismo politico e culturale in cui la filosofia dei «lumi» penetrava come motivo di gusto e di curiosità, non come elemento attivo e trasformatore e la cui funzione si esauriva in notazioni di costume.
Con queste limitazioni, a cui si aggiunsero le difficoltà economiche familiari (cinque figli avuti dalla moglie Luisa Bergalli, poetessa Irminda Partenide in Arcadia) che lo costrinsero a sfruttare il lavoro letterario (la sua casa diventò un'officina in cui moglie, figlie e fidanzati scrivevano per i giornali, componevano, traducevano, preparavano raccolte di rime, commedie, favole etc.), Gozzi ebbe la funzione di mediatore tra vecchio e nuovo. Il serio e dignitoso classicismo veneto in lui s'incontra con il gusto moderno e la letteratura lo tempera con lo stile tanto che i «letterati» del Novecento lo videro come scrittore di pagine d'arte.
Eppure Gozzi non fu un formalista ma un sicuro artigiano legato alla pratica letteraria di ambiente, familiare e locale, a un mestiere che, però, gli consentì di confrontarsi con il nuovo, il gusto moderno di Voltaire e Addison, di non essere assorbito dal pedantismo letterario dell'Accademia dei Granelleschi. Anzi il suo merito consiste nell'avere disciolto in analisi fini e interiori le sue osservazioni di costume sulla società del tempo, nel non avere fatto il «dettatore» di galatei e di comportamenti perché il suo moralismo alquanto accidioso e sfiduciato lo manteneva in una sfera di non ardente saggezza.
Il compromesso di Gozzi è caratteristico della sua storia personale, familiare, veneziana ma nel compromesso c'è del nuovo nell'avere aperto con il giornalismo la strada a un modo di osservare e di descrivere la cronaca minuta e un po' pettegola, quasi goldoniana, della vita di una società in decadenza («Gazzetta Veneta», 1760-61), di avere ritratto il mondo e il costume contemporanei spargendo semi di tolleranza attraverso fiabe, facezie, parabole, aneddoti, novellette, caricature con un tono lontano dalla predica e dalla normativa («Osservatore», 1761-62, che ebbe come modello lo «Spectator» di Addison). Una delle prose più interessanti dell'«Osservatore» è quella in cui il giornalista incontra una contadina la quale demitizza la vita idillica della campagna (l'ombra del bosco, l'amore):

Ma non sì tosto si è detto quel benedetto sì, che ci ha legato, il giorno dietro delle nozze, la prima gentilezza, avanti che spunti il sole, è piantarci una zappa o una vanga in mano e condurci con la nuova famiglia a dilombarci in un campo, dove noi altre povere sciocche […] diventiamo magre, nere come il carbone, e siamo tutte slogate come una botte che abbia perduto i cerchi, e cui si siano sfasciate le doghe, le quali si rovesciano da tutti i lati quando abbiamo fatto il primo fanciullo […] e per aggiunta quel nostro bel sole ci abbrustolisce le cuoia, che diventiam zingare.

La sua mancanza di ufficialità, di sarcasmo e di invettiva, nasce dall'uomo e dall'ambiente ma ha l'importantissima funzione culturale della diffusione di una concezione di vita civilmente moderna in un pubblico abbastanza largo. Gozzi moderato e classicista è l'artefice della riduzione a cronaca garbata e commentata, popolarmente utile, dei più diversi avvenimenti veneziani; questa funzione esercitò un «letterato» che artisticamente alieno dall'«utile» dovette sperimentare sulla propria pelle (nonché di Irminda e dei figli) la durezza professionale del rapporto tra utile e letteratura.
Da qui l'importanza culturale e sociologica dei suoi giornali. Nei vari generi che egli sperimentò ricordiamo l'epistolare (Lettere diverse, Lettere serie, facete, capricciose e quasi bestiali) allora molto diffuso, le rime bernesche, i Sermoni in sciolti, i dialoghi della Difesa di Dante in cui, contro le censure rivolte a Dante da Bettinelli, comprese l'unità della Commedia, individuò in Dante il protagonista del poema e sostenne la necessità di giudicare Dante riferendosi alle condizioni dei tempi in cui venne scritta l'opera (che Bettinelli aveva accusato di oscenità). Negli ultimi anni della vita Gozzi soffri lutti familiari, malattie e nel 1777 a Padova si buttò nel Brenta. Venne aiutato dalla protettrice Caterina Tron e assistito dalla seconda moglie Sara Cenet.
Convinto reazionario, rappresentante della corrente più retriva nell'aristocrazia veneziana fu Carlo Gozzi3 (1720-1806), assai acuto nel comprendere che le aggregazioni ideologiche e culturali illuministiche disfacevano anche il mondo della vecchia letteratura. A questa si aggrappò attivamente essendo tra i fondatori della passatista, purista e letteraria Accademia dei Granelleschi (1747) quando contro l'Arcadia burchiellesca e bernesca la nuova cultura lanciava la sua polemica.
Consapevole della battaglia che si combatteva accusò i «ragionamenti geometrici e filosofici, la brutalità dei sensi», del materialismo mascherato di «sensibilità», rifiutò di scrivere per compenso (come il fratello Gaspare, Goldoni, Chiari), fu nemico del realismo goldoniano e scrisse che lo Stato ha come base la religione, la religione il boia e ammise la necessità, per salvare la morale, di bruciare libri e scrittori di libri.
Coerentemente con una ideologia aristocratica non critica rigettò le verità che non servivano alla sua classe, anzi, come si vede, accumulò tutti i divieti acritici, la negatività senza elaborare una concezione dialettica e storica.
Nel 1757 pubblicò contro Goldoni e Chiari un lunario burchiellesco, la Tartana degli influssi invisibili e nel poema satirico in ottave Marfisa bizzarra (1761-68) scherni, con stile pulciano e bernesco, la società illuministica e i due commediografi («sicché ogni mese uscian da' torchi al varco — due tomi: un di Matteo, l'altro di Marco», «e s'eran dati alla poetic'arte — per guadagnarsi il vitto in qualche parte»).
Gozzi rimprovera a Goldoni i soggetti tenui, i personaggi di basso stato, di deprimere i nobili e accarezzare il popolo e, per dimostrare che qualunque novità è capace di attirare gente al teatro e che egli stesso avrebbe conseguito lo stesso risultato «come una fiaba qualsiasi, di quella che le nonne e le serve narrano ai, bimbi accanto al fuoco», scrisse il canovaccio essendo egli sostenitore della commedia dell'arte — dell'Amore delle tre melarance raccolta già dal napoletano Basile.
La fiaba qui assume forma drammatica, i personaggi sono delle maschere, gli avversari sono satireggiati. La rappresentazione (1761) ebbe grande successo e Gozzi continuò a scrivere Il corvo, Il re cervo, Turandot, Augellin Belverde, La donna serpente etc., dieci commedie per le quali resuscitò il teatro delle maschere e contrappose il fiabesco al presunto naturalismo di Goldoni. Ma nelle nuove commedie Gozzi scrisse, per intento d'arte, quasi tutto. La scarsa fortuna che ebbero queste fiabe (derivate anche da novelle arabe, persiane, cinesi) in Italia sarà compensata presso i romantici tedeschi. Ma della fiaba le opere di Gozzi non hanno il carattere popolare che deriva dal meraviglioso e dall'inverosimile.
Gustose sono ancora oggi, invece, le Memorie inutili, un'autobiografia moralisticamente incisiva in cui sono indimenticabili le pagine sul ritorno di Gozzi dalla vita militare in Dalmazia e sulla scoperta del disastro economico della sua famiglia riunita in una villa di campagna governata con «pindarica amministrazione» da Luisa Bergalli autrice di «poetiche bestialità».
Le posizioni dei critici confermano che alla consapevolezza del disfacimento della tradizione classicista non era facile opporsi senza correre il pericolo di difendere ciò che era ormai sepolto. Carlo Gozzi, infatti, è su una posizione negativa. La nuova critica illuministica, guidata dal sensismo, rompe il criterio della universalità dell'arte e si fonda sul relativismo del gusto. La «polemica» — contro il dottrinarismo, l'accademia, il purismo, il grammaticalismo — serve anche a dare un taglio a una tradizione e ad affermare contro l'autorità di essa il gusto dell'individuo, del suo modo di sentire, delle sue scelte. L'uso della polemica, in quanto distrugge ciò che è finito, è in vigore presso gli illuministi i quali intendono colpire la letteratura frivola e accademica dell'Arcadia.
La critica iconoclastica è rappresentata da Saverio Bettinelli4 (1718-1808) mantovano il quale interpreta l'esigenza illuministica del rinnovamento della cultura e della letteratura. Per un altro aspetto Bettinelli nella sua revisione culturale si fonda sul concetto di regolarità e di ordine del classicismo dal quale Dante rimane estraneo. In sostanza, però, il critico non può rimanere estraneo al movimento riformatore e all'indirizzo della nuova cultura. Era entrato giovane nell'ordine dei gesuiti e dopo avere insegnato letteratura in diverse città dell'Italia settentrionale aveva compiuto un viaggio in Europa come istitutore dei figli del principe di Hoenlohe e aveva conosciuto Voltaire. Quando la Compagnia di Gesù fu sciolta (1773) egli si ritirò a Mantova, più tardi tributò omaggio a Napoleone dal quale ebbe onori e riconoscimenti.
Scarso valore hanno le sue tragedie e i suoi versi (Le raccolte, La monaca, Il gioco delle carte, Il Parnaso veneziano). Nel 1756 pubblica i Versi sciolti di tre eccellenti autori (Frugoni, Algarotti, Bettinelli) seguite da Lettere dieci di Virgilio agli Arcadi dette anche Lettere virgiliane, un perfetto pamphlet di tipo illuministico che viene incontro alla stanchezza per gli schemi retorici e per la cultura accademica. Il libro suscitò grande clamore per le accuse rivolte a Dante ma fu lodato da Voltaire e lo sarà da Pietro Verri sul «Caffè».
Per opporsi al «genio dell'imitazione» rivede la letteratura italiana secondo un criterio razionalistico e un gusto francese del simmetrico e del verosimile. Nella Commedia vede un «trattato scientifico» difficile, scritto in stile barbarico, «un caos di confusione, un imbroglio non diffinibile», un «monumento d'antichità» del quale sono leggibili circa cinque canti. Petrarca dovrebbe essere purgato di un terzo delle rime, l'Orlando furioso privato di alcuni canti e di tutti gli incantesimi e buffonerie, la Liberata dimezzata etc.
In appendice alle Lettere è il Codice di leggi del Parnaso italiano in cui propone, in merito alla nostra letteratura, alcuni rimedi che avrebbero contribuito alla pubblica utilità: inibire lo studio delle lettere ai giovani nati per la milizia, il foro, l'aratro, eliminare gli argomenti amorosi, porre il dazio sulle raccolte per nozze, lauree etc. L'Arcadia dovrebbe restare chiusa per cinquant'anni.
Nelle Lettere inglesi (1766) Bettinelli osserva che in Italia la mancanza di un centro culturale causa disgregazione, accademismo, immobilismo intellettuale. Più tardi, però, nel Discorso sopra la poesia italiana (1780) disapprova la nuova letteratura imitatrice degli oltremontani Ossian, Young, Harvey, Gessner e lontana dalle regole classiche. Dal suo gusto restavano lontani anche Goldoni, Alfieri («un politico che vuoi fare il poeta»), Metastasio, Monti.
Nel saggio Dell'entusiasmo la ragione è guida dell'entusiasmo (come negli arcadi) ma questo è il risultato di sensazioni che derivano dalle parole, dallo stile sicché qui si avverte l'influenza del sensismo. Antitetica alla cultura accademica da lui criticata gli appare l'età comunale, unitaria nel suo fervore economico, politico e culturale nel Risorgimento dell'Italia dopo il Mille.
La critica di Bettinelli, ora sfrecciante modernamente, ora allumacata nel buon gusto e nella tana del decoro, non arriva a una chiarificazione: è il salto nell'Illuminismo di un cattolico che, pentito, ricade nel senso comune.
Non fu programmaticamente illuminista (anzi avversò le ideologie dei «filosofi» e mantenne una ortodossia politico-religiosa) né simpatizzante degli Enciclopedisti né del gruppo del «Caffè» il torinese Giuseppe Baretti5 (1719-89) ma si trovò d'accordo con essi nella polemica per una cultura fatta di cose e non di «ciance», volta all'utile, avversa alla tradizione petrarchesca, bernesca, sonettistica, bembiana, chiabreresca, alla prosa boccaccesca. Il temperamento energico e sanguigno e non una concezione estetica originale gli faceva prediligere una letteratura fondata sul naturale, sul semplice, sull'entusiasmo, sul vigore creativo che ha il modello di Shakespeare. I modelli inglesi e francesi sono più vicini al suo ideale antiretorico e antipedantesco e tra, gli italiani, Cellini, Machiavelli, Redi.
Al temperamento energico l'educazione bernesca (la quale non era l'imitazione sciatta che ne facevano gli arcadi) aggiunse note dirompenti di satira nella creazione geniale, quella di Aristarco Scannabue, vecchio soldato con una gamba di legno, nemico della pedanteria che dalla «Frusta letteraria» (1763-65) lanciava i suoi trincianti giudizi senza curarsi dell'autorità di alcuno.
Baretti visse a lungo a Londra, in diverse riprese, scrivendo (difese anche la nostra letteratura dagli attacchi di Voltaire). Viaggiò in Francia, Spagna, Portogallo, scrisse le Lettere familiari a suoi tre fratelli e un grande saggio Discours sur Shakespeare et sur monsieur de Voltaire (1777) in cui sostenne l'impossibilità di leggere la poesia attraverso le traduzioni. La «Frusta» comparve a Venezia (con l'indicazione di Rovereto) poi ad Ancona (con l'indicazione di Trento) quando il governo veneto ne proibì la pubblicazione.
Il pensiero critico di Baretti non è lineare ma il nucleo del suo battagliare e polemizzare è la concezione di una letteratura non isolata dalle manifestazioni della vita bensì il cui valore è commisurato agli interessi degli uomini.
Nell'impostazione artistico-critico-morale di Baretti la polemica contro l'Arcadia, «letteraria fanciullaggine», è emblematica di un gusto energico che ridicolizza la leziosaggine dei sonettisti, la futilità degli eruditi:
  1. Per decider se chiome aurate o scure
  2. monna Lucrezia avea, sanno que' dotti
  3. scriver importantissime scritture;
  4. e il gran punto discutono, se cotti
  5. o crudi i cardi Andromaca mangiava,
  6. prima che i muri d'Ilio fosser rotti.
Da quell'impostazione costante, di autenticità, deriva il rigetto della letteratura come perditempo, convenzione di iperboli. Per gli arcadi, scrive Baretti, se
  1. una povera ragazza
  2. dall'amante abbandonata,
  3. sconsolata e sconsigliata,
  4. e per giunta alquanto pazza
  5. [decide di monacarsi]
  6. ecco i zefiri leggieri
  7. che le rubano i capelli,
  8. sempre biondi e ricciutelli,
  9. vale a dir distesi e neri;
se un poeta vuole cantare l'innamorata, questa
  1. di suo padre non è figlia:
  2. è del seme degli déi.
  3. Non pensare che sia donna,
  4. e nemmeno che sia dea:
  5. è la bella Citerea
  6. scesa a noi in mortal gonna.
Istruire mediante idee chiare e concrete è un fatto morale per Baretti il quale interviene anche per correggere gli scrittori ascetici i quali credono di emendare gli uomini con la minaccia del diavolo e dell'inferno:
  1. Gli ascetici francesi non fanno giuocar il diavolo in ogni pagina, come giuoca ne' vostri; non ischiamazzano ogni tre righe contro le donne che si vestono pulitamente, secondo la loro condizione; non minacciano fuoco e fiamme ad ogni putto che guarda una fanciulla; non precipitano in somma nell'inferno chiunque s'arrischia di porgere il braccio ad una dama che scende una scala, o che monta in una carrozza o in una gondola.
Pur muovendosi criticamente in modo contraddittorio (predilezioni e scelte nascono in lui dal temperamento), tanto da non comprendere Goldoni e da elogiare Metastasio, massimo rappresentante della poesia arcadica, Baretti indipendente nella vita (che molto spesso in Italia gli scrittori avevano fatto dipendere dal mecenate) lo fu anche nella critica aperta e coraggiosa che il frazionamento politico e l'angustia classicistica provinciale avevano resa accademica e stantia.
Le trasgressioni linguistiche di Baretti, l'originale corposità del suo linguaggio derivano certamente dal temperamento dello scrittore torinese ma appaiono storicamente e culturalmente plausibili perché egli appartiene alla generazione della rivolta antiarcadica che ha la sua forza vitale nell'Illuminismo. Da questo movimento le forze vecchie della cultura sono logorate e intorno ad esso si aggruppano, con diverse trasformazioni e aggregazioni, i nuovi elementi.
Universale è nelle forze nuove la rivolta contro la lingua letteraria cruscante, conservatrice di un toscanesimo consumato che non avendo funzione attuale è diventato pedantesco. Giustamente i nuovi scrittori deridevano il pesante corpo linguistico accademico atto a frascheggiare, metaforeggiare ma non ad esprimere idee e cose. Essi avevano l'esempio della. lingua degli Enciclopedisti, diventata lingua della cultura europea, idonea, invece, nella sua rapida brevità, a esprimere, con terminologia tecnica, la nuova logica che dalla mente si trasferiva nella scrittura e nella conversazione.
La pesantezza del periodo boccaccesco e cinquecentesco era l'esito di una funzione consumata e risaltava di fronte all'agile sintassi di una prosa che si prestava lucidamente alla comunicazione delle idee.
Tutto il nostro apparato sintattico tradizionale regolato da canoni, da purezza, da proprietà di vocaboli era un fardello carico di secolare addottrinamento. Vetusto e non flessibile, strumento di comunicazione dei dotti, cedeva alle necessità dello spirito critico e pratico.
Idee nuove espresse con linguaggio faticosamente toscano e letterario (così era avvenuto al Genovesi) potevano essere accolte con difficoltà. Inoltre nuovi termini introdotti dalla cultura scientifica ed economica e nuovo pubblico non costituito soltanto da dotti imponevano una soluzione del problema. Melchiorre Cesarotti6 (1730-1808), nobile padovano, sacerdote, professore di greco ed ebraico, traduttore dal greco, dal francese, dall'inglese era già in gran fama di dotto quando scrisse il Saggio sulla filosofia delle lingue (1785) in cui accordando il razionalismo illuministico con il sensismo di Condillac propose di sottomettere la lingua al governo della regione e del gusto, combattendo sia il rigorismo che il libertinaggio per sostituirvi una «temperata e giudiziosa libertà».
La lingua, interprete del pensiero, non è immobile ma si trasforma e si arricchisce di vocaboli, «seguendo l'impulso progressivo dello spirito», provenienti anche da altre nazioni. Per Cesarotti la supremazia culturale francese legittima l'uso di francesismi. Infatti bisognava considerare che le scienze e lo spirito filosofico avevano modificato tutta la nostra lingua.
Cesarotti non accetta il principio di autorità e rigetta alcuni pregiudizi di letterati sostenendo che: nessuna lingua è originariamente barbara o elegante o superiore alle altre ma tutte progrediscono con l'uso e vicendevolmente si arricchiscono; nessuna lingua è pura ma ciascuna nasce dal confluire in essa di diversi idiomi; ogni lingua si forma per libero consenso del maggior numero; nessuna lingua è inalterabile né è parlata uniformemente dalla nazione ma in essa si formano dialetti e gerghi; in nessuna lingua lo strato più antico ha pregi maggiori di quelli successivi.
La ragione è direttrice della lingua (come base ne è l'uso e consigliere l'esempio) in tutte le fasi, anche negli arricchimenti: «Le arti, le scienze, il commercio presentano ad ogni momento oggetti nuovi, che domandano d'esser fissati con nuovi termini».
La soluzione moderata di Cesarotti parve troppo avanzata al torinese Gianfrancesco Galeani Napione (1748-1830) per avere ammesso la presenza di francesismi e neologismi nella nostra lingua. Cesarotti rispose che egli si era proposto di «toglier la lingua al despotismo dell'autorità e ai capricci della moda e dell'uso, per metterla sotto il governo legittimo della ragione e del gusto» perché gli Italiani fossero «italiani moderni che fanno uso con sicurezza naturale d'una lingua libera e viva, e la improntano dalle marche caratteristiche del proprio individuai sentimento».
L'apertura di Cesarotti disancora il problema della lingua dalle secche della tradizione muovendo da basi illuministiche. Anche sul piano del gusto egli aderiva al classicismo illuministico, una poesia cioè di sentimento e di respiro classico avente le sole regole della natura e della ragione (e non quelle del classicismo rinascimentale); una poesia impetuosa e primitiva fondata sulla corrispondenza di natura e sentimento come quella che egli credette di avere trovato nei poemetti di Ossian da lui tradotti in italiano fra il 1763 e il '72. Ma Ossian, bardo del terzo secolo, figlio di Fingal, re di Caledonia che aveva combattuto contro Caracalla, non era mai esistito perché lo scozzese James Macpherson aveva attribuito all'immaginario bardo leggende celtiche che egli aveva rimaneggiate alla maniera di Gray (la cui Elegia era stata tradotta da Cesarotti) e di Young.
Sull'Europa predisposta da Rousseau all'ammirazione del primitivo e del naturale i canti distesero un'atmosfera di sensibilità affascinata da leggende di avventure che si svolgono tra monti, laghi, foreste solitarie aprendo orizzonti alla fantasia con descrizioni di malinconia delicata e meditativa.
L'influenza di questa malinconia tocca Herder, Goethe, Monti, Foscolo, Leopardi. Cesarotti credette in Ossian «poeta per eccellenza» della natura, vissuto «sotto un cielo nebbioso, fra lo squallor dei deserti, in mezzo al rugghiar dei torrenti e delle tempeste», creatore di «scene silvestri spiranti un orrore angusto» con un linguaggio «or di foco or di lampo» che non trova l'eguale «in tutto il regno poetico».
Al di là della mistificazione Cesarotti nella celebre traduzione versificata esprimeva il suo gusto del sublime, della poesia di natura e sentimento animata solennemente da una presenza terribile e sovrumana:
  1. Oh tu che luminoso erri e rotondo
  2. come lo scudo de' miei padri, o Sole,
  3. donde sono i tuoi raggi? e da che fonte
  4. trai l'immensa tua luce?
Per questa via, e per altre meno solenni, Cesarotti — come nel Saggio sul Bello — apriva la via al sentimento dell'età romantica: «Tutti i monumenti che rappresentano vicende strepitose, tutti quelli che svegliano alcun sentimento profondo relativo alla Divinità, all'Eternità, alle forze del tempo, alle vicissitudini della fortuna, tutti hanno una bellezza assai maggiore di quelli che ci dilettano per la squisitezza dell'arte».