Capitolo 12: L'Arcadia
Paragrafo 1: L'Arcadia e la «ragione» riorganizzatrice della cultura. La lirica


Le guerre che nel Settecento lacerano l'Europa coinvolgono anche l'Italia. Si tratta di guerre più assurde (se potessero esistere guerre non assurde) delle altre perché nascono da problemi di successione dinastica: come quella per la successione spagnola (1700-14), polacca (conclusa nel 1738 con la pace di Vienna), austriaca (1740-48, conclusa con la pace di Aquisgrana).
Ne esce profondamente modificato l'assetto politico e territoriale italiano perché, crollato l'immobilizzante, chiuso e fiscale dominio spagnolo, si istallano in Italia nuove dinastie: in Lombardia subentra l'Austria; in Toscana i Lorena imparentati con l'Austria prendono il posto dei Medici estinti nel 1737 con Gian Gastone; a Napoli e in Sicilia l'Austria succeduta alla Spagna fa salire sul trono i Borboni, un ramo dei quali ottiene Parma, Piacenza e Guastalla; il Piemonte accresciutosi con parte della Lombardia e con la Sardegna ha i suoi re nei Savoia; le repubbliche di Genova e Venezia conservano indipendenza e territori.
L'Italia esce dal provinciale isolamento storico e, pur dominata dalla mortificazione controriformistica, comincia ad allestire strutture culturali e ideologiche che preparano l'attività politico-culturale degli illuministi non più completamente vincolati alle classi che sono al potere.
Le forze in campo in Italia non sono ancora mature e si muovono su un terreno etico e teorico. Le classi aristocratiche difendono le loro posizioni da qualsiasi accenno a mutamenti progressisti, la borghesia diversifica da Stato a Stato la sua non vigorosa conformazione, gli intellettuali non oltrepassano, nel difendere i diritti dello Stato dalle ingerenze della Chiesa, l'ambito del regalismo dinastico e non riescono a suscitare nell'impegno civile il calore che crei l'aggregazione di una classe dirigente nuova.
Giannone, anticurialista geniale, non scende nel profondo del tessuto sociale italiano, Vico è indifferente ai problemi concreti del suo tempo e sul suo tempo non ha avuto alcuna influenza, Muratori è per un assolutismo monarchico paterno esercitato nei limiti della legge di natura, delle genti e del Vangelo. Il pensiero di questi intellettuali di primaria importanza non è perforante ma, in alcuni di essi, si muove con la lentezza dell'estrema moderazione e della composta armonia; il loro buon uso della ragione, il ritorno alla classicità e alle memorie patrie ha le misure dell'Arcadia.
Manca l'organicità dell'esigenza dell'impegno politico, il distacco tra politica e cultura è profondo, i motivi ideali su cui innestare i progetti di riforma sono casuali e le proposte sono delegate al sovrano. Ben altre erano le condizioni del pensiero politico in Inghilterra e in Francia. Questa immaturità del pensiero italiano, collegata con il sistema politico-sociale della penisola, va sottolineata per storicizzare l'età dell'Arcadia anche nei limiti che essa ha avuti, per non creare artificiosi preilluminismi, per non annegare tutto il secolo in una generica «ragione» riformatrice e per caratterizzare l'illuminismo come l'età delle riforme.
Entro questi limiti si può parlare della «riforma delle lettere» promossa dall'Arcadia. Già negli ultimi decenni del Seicento era cominciata la reazione al marinismo su base classicistica, soprattutto nella Toscana (con Redi, Menzini, Bellini, Magalotti, Filicaia) fedele alla tradizione rinascimentale e galileiana e a Napoli per l'influenza di Telesio, Campanella, Galilei e Gassendi. L'Arcadia è una nuova accademia fondata a Roma nell'ottobre del 1690 da letterati che, già assidui del salotto di Maria Cristina ex-regina di Svezia, decidono di reagire alle degenerazioni del barocco e di «esterminare il cattivo gusto […] perseguitandolo continuamente ovunque si annidasse» e restaurare la poesia della tradizione italiana distrutta «dalla barbarie dell'ultimo secolo».
L'accademia, di cui facevano parte quasi tutti i citati toscani epigoni dell'antimarinismo e gli eredi del petrarchismo secentesco di Schettino, Buragna, del classicista Chiabrera, ebbe come primo custode generale Giovan Maria Crescimbeni (1663-1728) di Macerata il quale scrisse nell'Arcadia (1708) l'autobiografia dell'accademia. Questa prendeva nome dalla mitica regione della Grecia, culla della poesia pastorale, e si proponeva di restaurare il buon gusto imitando il costume dei pastori e componendo intorno ad argomenti bucolici: amori semplici nel quadro di una natura serena, allietata dalla bellezza di alberi e fiumi.
I poeti assunsero nomi fittizi di pastori e pastorelle, tra i fondatori di questo mondo convenzionale, oltre il Crescimbeni, furono Gianvincenzo Gravina di Rogliano, Giambattista Zappi di Imola. Il simbolo dell'accademia era la siringa di Pan, il protettore Gesù Bambino. Pastori e pastorelle appartenevano alla società colta ed elegante; per loro l'accademia fu una sorta di traslocazione salottiera nella cui sede si scambiavano versi d'occasione per battesimi, nozze, monacazioni, lauree. Al di là di queste puerilità (rinnegate dal Gravina che, postulando contenuti più seri e classici, si staccò fondando la accademia dei Quirini, poi riassorbita) l'importanza della prima Arcadia (che giunge fino alla metà del secolo: dopo comincia la catabasi e lo scherno di illuministi e romantici) consiste nell'organizzazione centralizzata (dalla quale si staccavano «colonie» nelle altre regioni) degli uomini colti e nel loro indirizzo unitario suscitatore di entusiasmi e di desiderio di primato, non sempre retoricamente espressi come in questa pindarica esaltazione del Filicaia:
  1. Vivrà l'Arcadia; e la fatal congiura
  2. degli anni edaci, che sì ratti vanno,
  3. fia che a lei di far fronte abbia paura.
Per gli arcadi il modo di comporre la poesia consisteva in un equilibrio di correttezza formale, di fantasia e intelletto mentre il fine era «dilettare con l'imitazione». La poesia tradizionale offriva diversi modelli, dal petrarchesco al pindarico, al bernesco, all'idillio pastorale, al poema giocoso e didascalico etc. con la misura di grazia e musicalità derivanti dalla società colta del primo Settecento. Nelle canzonette gli arcadi portarono l'atmosfera elegiaca dei loro teneri strazi sentimentali, con un costante sottinteso al gioco dei sensi sfumato nel tenue lirismo di un mondo non gravato da problemi e da gravi preoccupazioni, atteggiato al gusto del ballabile e della miniatura.
Nel campo religioso la ragionevolezza dell'Arcadia fu distante dalle tetraggini e dai misticismi secenteschi ma intese evitare anche lo scetticismo, salvaguardata sempre la fede cattolica con qualche moderato ammodernamento. Istituzione moderata fu, del resto, l'Arcadia con la sua aspirazione a un rinnovamento morale (cioè religioso), con la ripresa della tradizione, del primato intellettuale italiano, e con il tentativo di fondare una cultura nazionale. Non riformatrice ma ordinatrice l'Arcadia insegnò la disciplina letteraria, infuse amore per le ricerche storiche e filologiche, per l'erudizione.
La tensione riformatrice rimase nella sfera morale anche per il Muratori, accusatore della «perversità dei tempi», dell'«inerzia» degli scrittori e della «illiberalità dei principi». L'erudito modenese ha coscienza del decadimento e indica alla cultura l'obiettivo della «pubblica felicità» (egli stesso denuncia le condizioni orribili dei «miseri carcerati» viventi «in un vivo abisso di calamità e di miserie» e raccomanda ai principi la cura paterna verso i popoli) ma rimane — né poteva essere diversamente — nella sfera di un degnissimo e insufficiente moralismo umanitario.
La ricordata opera istituzionale del Crescimbeni narra di un viaggio di ninfe e pastori guidati dal custode generale in una Arcadia in cui troviamo tutti i simboli dell'istituzione ritualmente evocati e collegati con le tradizioni antiche e recenti della letteratura pastorale.
Visite alle capanne, descrizione di coppe istoriate, giochi. premiazioni, funebri, si svolgono in un simbolismo astratto. La visita alle capanne non include quella del lavoro dei campi, la vita rurale è dileggiata, il carattere della letteratura pastorale è aristocratico, il villano è ancora oggetto di satira e di parodia, gli eroi sono i personaggi del Settecento mascherati da pastori e che nella realtà erano reddituari o cortigiani. Solo dal Goldoni in poi l'uomo di lettere può vivere del proprio lavoro di studioso o di autore di teatro.
Non casualmente il Crescimbeni scrive che ninfe e pastori itineranti vengono sberciati dai contadini «alla viva spera del sole dirottamente sudando» e che il «Padrone delle Messi», pastore arcade e poeta, non lavorante, fa, cantando in versi, le scuse al «nobil drappello» della «scortesia dei villani» lavoranti:
  1. D'ira dunque il cor v'accese,
  2. e v'offese
  3. il furor di vil Bifolchi,
  4. ch'uso, ed arte in queste piagge
  5. lieti tragge
  6. a spogliar di biade i solchi?
  7. Non conosce, o non apprezza
  8. gentilezza
  9. incivil rustica plebe,
  10. in cui spira aspri, e villani
  11. modi strani,
  12. sol pensier d'aratri, e glebe.
Il mondo dei crescimbeniani pastori, invece, è la
  1. bell'Isola incantata,
  2. sede amata
  3. del bel tempo, e del piacere […]
  4. la bell'Isola incantata,
  5. l'avvocata
  6. pietosissima de' sensi;
le premesse sociali della satira pariniana esistono in questa contrapposizione di mondi fatta dal Crescimbeni.
Ma lo spirito della riforma arcadica non toccò soltanto la lirica col suo richiamo ai modelli cinquecenteschi e al Petrarca, esso raggiunse tutti i generi letterari che cominciarono a essere riformati (lingua, tragedia, commedia, melodramma). Elemento distintivo dello spirito di riforma dell'Arcadia fu il razionalismo cartesiano, che era largamente penetrato a Napoli con il Cornelio e nel Settecento è divulgato dal Caloprese e dal Gravina.
Si trattava di un indirizzo generale di fondo, di una idea-madre ispiratrice di ordinamento razionalizzatore in tutti i generi letterari e anche nella lirica la quale abbassò i toni ditirambici, pindarici, entusiastici per esprimere attraverso l'imitazione, il verosimile e l'utile morale affetti misurati e tranquilli. L'espressione del Ceva, che la poesia è «un sogno fatto in presenza della ragione» indica con precisione il controllo esercitato sulla fantasia dall'intelletto, del quale rimane il segno nelle linee nitide dei componimenti arcadici e nel linguaggio poetico preciso.
Questa lirica fu letteraria e monocorde ma ha avuto importanza sociale e didascalica perché da allora l'uso del comporre in versi diventò nelle scuole religiose un elemento dell'educazione elevata e perché la poesia di occasione si diffuse come attività di intrattenimento fra i ceti borghesi. Né si può tralasciare il fenomeno, diffusissimo nei cenacoli arcadici, degli improvvisatori al cembalo i quali recitavano suonando o degli improvvisatori su un soggetto a richiesta. Grande fama di improvvisatrice ebbe in Italia la pistoiese Corilla Olimpica.
I lirici della prima Arcadia sono dei poeti minori rivolti a cantare, come Giambattista Zappi (1667-1719), svenevolmente gli scherzi degli Amorini; Paolo Rolli (1687-1765), che fu a Londra precettore dei figli di Giorgio II, il dolore per la lontananza dell'amata:
  1. Solitario bosco ombroso,
  2. a te viene afflitto cor
  3. per trovar qualche riposo
  4. fra i silenzi in quest'orror
e l'arrivo dell'inverno:
  1. La neve è alla montagna,
  2. l'inverno s'avvicina […]
  3. come potrò mai vivere,
  4. cara, lontan da te?;
Tommaso Crudeli (1703-1745) la bella nuotatrice:
  1. Notava ella ridente
  2. con occhio nero, e verso il ciel sereno
  3. volgea soavemente
  4. i candori del seno.
Lo Zappi, ammiratissimo ai tempi suoi, divenne per il Baretti oggetto di derisione per lo stile sdolcinato. Se in molti lirici la rappresentazione dell'amore non ha traccia di drammaticità, un accento di serietà è nei versi dello scienziato bolognese Eustachio Manfredi (1674-1739), astronomo alla Specola e caposcuola del gruppo dei poeti bolognesi composto da Ferdinando Ghedini, Francesco Maria e Giampietro Zanotti, il quale in gentili e vigorosi versi petrarcheschi cantò la monacazione di Giulia Vandi, una giovane da lui amata.
La prima Arcadia tocca il colmo dello sviluppo a metà del secolo, più tardi subentrano nella lirica motivi sentimentali e patetici derivanti dallo svizzero Gessner, neoclassici ispirati alle pitture pompeiane, preromantici per le influenze dell'Ossian tradotto da Cesarotti.
L'Arcadia erotico-galante e mondana delle corti di metà secolo si specchia nella lirica dell'abate genovese Carlo Innocenzo Frugoni1 (1692-1768) maestro degli infanti ducali, ed ispettore agli spettacoli alla corte dei Farnese e dei Borboni di Parma. L'estenuazione del mondo farnesiano nel fasto spagnolo e nella mondana eleganza francese della corte, della villeggiatura, del diporto, della gala corrisponde all'estenuazione dell'Arcadia nella facilità e nell'eclettismo e il Frugoni è il tecnico del costume, lo sceneggiatore delle cacce, dei banchetti, il regista di una «dolce vita» color di rosa, priva di sottofondi e di allegorie.
Con tale disponibilità egli verseggiò in migliaia di componimenti sacri, eroici, epitalamici, berneschi, burchielleschi, anacreontici, canzonette, ditirambi, baccanali. La fama lo accompagnò in vita come rappresentante del vistoso costume salottiero e mondano, del mondo di Citera e delle dame di superba e pomposa bellezza in mezzo alle quale visse sinceramente gaudente e superficiale.
Queste bellezze egli descrisse con facilità musicale infinite volte in uno sfondo mitologico-cortigiano:
  1. corallina e graziosa
  2. tra' bei labbri sorridenti
  3. dischiudea bocca vezzosa
  4. bel tesoro di bei denti.
Ma del Frugoni ormai maturo occorre ricordare anche l'esperienza lirica di certi aspetti del sensismo inteso come nobile sostegno alla civiltà umana. L'arcade abbracciava elementarmente questa nuova visione, si innamorava dei nuovi orizzonti e negli sciolti al Condillac scopriva la Natura «maestra prima» e le scienze della natura. Il versaiolismo di Frugoni dilaga nelle colonie arcadiche accresciuto dalla musa delle opere facete, dall'imitazione di Pulci e Berni; e nel Ricciardetto dell'arcade Niccolò Forteguerri c'è la derisione delle accademie.
Il nerbo dell'Arcadia erano state le discussioni teoriche, l'avviamento verso un nuovo gusto ma il rinnovamento profondo non poteva venire da un'accademia. Già nei primi anni del secolo Muratori nelle Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti (1708) aveva espresso il proprio fastidio a proposito della vacuità degli argomenti, dell'oziosità delle accademie, della vanità dei letterati: «Argomenti per lo più assai leggieri, perché quasi sempre destinati a trattar de' grandi affari d'amore. Versi e poi versi: e in una parola, solamente certe bagattelle canore sono il massiccio delle nostre accademie».
La vecchia Arcadia tenta di sopravvivere travestendosi, imitando Orazio, confondendosi col neoclassicismo, introducendo nel secondo Settecento temi funerari o scientifici e didascalici. L'eredità dell'Arcadia si trasmette con l'idillio pastorale in una cornice di grazia patetica e sentimentale per opera di Gessner tradotto in Italia da Aurelio Bertola.
Gessner, che trasporta i suoi semplici e onesti pastori in un mondo di borghesi sentimenti morali, appare un poeta del cuore e della virtù. L'idealizzazione bucolica esalta ornamentalmente le virtù morali, la felicità in un paesaggio boschivo e floreale, teneramente manierato, domestico e privo di pathos.
Il traduttore di Gessner, Aurelio Bertola2 (1753-1798) di Rimini si venne formando nell'arcadia metastasiana e frugoniana e i suoi primi componimenti furono erotici e sensuali. Viaggiatore intelligente, intinto di cultura scientifica, ebbe una vena poetica sentimentale che influenzò anche il Foscolo giovane (che lo conobbe forse nel salotto veneziano di Isabella Teotochi, la «dea dell'Adria» della quale anche il riminese fu innamorato). Emozioni, sensibilità portano il Bertola degli ultimi anni (nel Viaggio sul Reno che si chiude con una immagine di morte) in direzione di un vago romanticismo.
Alla mitologia e al neoclassicismo si ispira, invece, il bolognese Ludovico Savioli (1729-1804) il quale negli Amori (1765) disegnò con icastica e aggraziata nitidezza il mondo galante del Settecento nei rituali di vita pubblica e privata. La decrepitezza dell'Arcadia è segnata da Jacopo Vittorelli (1749-1835) di Bassano il quale adopera con fortuna le forme melodrammatiche di Metastasio entrate nell'uso comune e caricate di accenti popolari:
  1. Empia! dovevi allora
  2. porgermi un fil d'aita»,

  3. [...]
  4. Me lo predisse il core,
  5. e il core non inganna.