Capitolo

5

L'età dell'umanesimo


PREMIO ANTONIO PIROMALLI
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5 - § 2

La letteratura volgare del primo Quattrocento


I primi decenni del Quattrocento sono caratterizzati dal bilinguismo: la funzione colta e letteraria è assunta dal latino, il volgare acquista vigore nelle scritture aventi finalità pratiche, livelli comico-realistici, composte o destinate a persone che non conoscevano il latino. Nei generi letterari più elevati (epica, storiografia, epistole, oratoria, destinate a tramandare il valore individuale) si usava il latino ma nei bandi pubblici era indispensabile l'uso del volgare. Nella prima metà del secolo l'ondata originaria dell'umanesimo fece trionfare il latino ma l'illusione reazionaria che il latino classico potesse sussistere perpetuamente come lingua dei dotti venne cancellata dall'evoluzione politica e soprattutto dalla fondamentale importanza della vita economica e pratica le quali trovavano diversi livelli espressivi unicamente nel volgare.
Nella seconda metà del secolo la letteratura è volgare, anche se diversi scrittori si servono abilmente di ambedue le lingue (Poliziano, Sannazzaro, Pontano), se il latino rispunta in lacerti epistolari solenni o di uso convenzionale («venivano per far impresa di grande momento, cioè interficere patraeum nostrum» si dice in una lettera del 1490) o continua a essere usato nelle formule dello stile burocratico e cancelleresco. Ma è anche vero che nel 1488 Ercole I d'Este prega il Boiardo di tradurgli in fretta un brano del De Architectura dell'Alberti, e nel Morgante l'arcangelo Gabriele che appare a Orlando morente cita passi biblici traducendoglieli: «Dominus dedit, lui data l'avea, | Dominus abstulit, lui l'ha ritolta, | sicut Dominus placuit, in ea | factum est, così fatto è questa volta»).
Nel 1532 un europeo che era stato francescano e benedettino e aspirava da umanista rivoluzionario laico ardentemente a una riforma religiosa, Rabelais (1494-1554), nella grande opera Gargantua e Pantagruele satireggerà i «latineggiatori», la loro presunta superiorità e le loro mistificazioni («Domine, un paio di brache è una bella cosa, et vir sapiens non abhorrebit eum […] Vultis etiam pardonos? Volete indulgenze? Per Diem, vos habebitis, et nihil pagabitis»).
La letteratura in volgare del secondo Quattrocento, comunque, risente della raffinata educazione classica dei suoi autori mentre nei primi decenni del secolo gli aspetti da essa rappresentati sono certamente quelli minori. La lirica di Giusto dei Conti, di Buonaccorso da Montemagno è petrarchesca, cioè esercizio letterario. Ha già avuto inizio l'infinito ludo cartaceo che per secoli, con riferimenti al Petrarca innamorato di Laura e rimatore d'amore, inonderà la nostra letteratura cristallizzando temi e forme liriche. Mitologia e angusta erudizione classica infarciscono le rime di amore. In taluni lirici quattrocenteschi (Antonio Tebaldeo, Serafino Aquilano) c'è abuso di antitesi, arguzie, traslati, bizzarrie.
Più libero nelle forme e più virile nei temi è Pandolfo Collenuccio di Pesaro (1444-1504), personaggio importante nella vita politica e delle corti, ucciso dagli Sforza di Pesaro per avere appoggiato le rivendicazioni del Valentino in Romagna. Scrisse un Compendio della storia del Regno di Napoli. Come poeta è noto soprattutto per una sua canzone alla morte:
  1. Tu breve, tu comune e iusta e grata,
  2. tu facil, natural, pronta […]
  3. nostre calamità prego che ammorte,
  4. benigna e valorosa, optata Morte.
Non vigorosa né tragica è la poesia di Leonardo Giustinian1 (1388-1446) patrizio e umanista veneziano, allievo del Guarino e amico di Bernardino da Siena, il quale raccolse motivi popolareschi giunti a Venezia dalla Sicilia e dalla Puglia sulla scia del commercio marittimo. Tali motivi anonimi nel Quattrocento sono raccolti dai letterati per la loro ingenua semplicità, tanto diversa dalla lirica e dall'ideologia amorosa elaborate nelle corti, per sperimentare nuovi stili o per simpatia divertita. Il Giustinian si dilettò di letture liriche e di musica e negli strambotti e canzonette fuse la schiettezza popolaresca con il suo gusto letterario. Egli si ripiegò quasi con condiscendenza su temi popolareschi; indovinò, per predilezione di gusto, i sentimenti elementari e i suoi componimenti, per questo dato oggettivo, si diffusero in tutta Italia. Non si tratta di poesia popolare ma di motivi ricantati non sprezzantemente da un aristocratico, da un letterato di gusto (sorridente di simpatia verso il «suo» popolaresco e distaccato):
  1. Sia benedetto il giorno che nascesti,
  2. e l'ora e il punto che fusti creata! […]
  3. E si presto tu m'intrasti nel core,
  4. come saetta da l'arco vene […]
  5. E mo' mi vedi, e par non me conossi,
  6. come tuo servo stato mai non fossi.
Giustinian anticipa la superficiale analisi dei sentimenti di tanti lirici del secondo Quattrocento, la sostanzialmente indifferente ammirazione di tanti altri letterati borghesi dei secoli che verranno per il mondo popolare. In definitiva è popolareggiante la lirica di Giustinian perché in essa non è intervenuta l'elaborazione popolate e delle forze etnologiche che erano in condizione subalterna rispetto al potere politico e culturale delle classi egemoniche.
Non patrizio ma barbiere fiorentino e geniale giocoliere dei detriti della letteratura dei luoghi comuni, delle frasi fatte in cui si invischiavano gli epigoni fu Domenico di Giovanni2, detto Burchiello (1404-1449), costretto a lasciare Firenze al ritorno dei Medici (1434) e morto povero a Roma. Con la satira della letteratura alta (stilnovo, sovrareale dantesco, dignità dei modelli esemplari di Petrarca) nella quale egli vedeva uno snaturamento e una mistificazione della realtà, Burchiello si collega ai modi realistici della cultura comunale. Il significato storico delle sue rime è nel fatto che egli brucia i comportamenti pavoneschi dei letterati e nei suoi versi fa entrare le cose (dalle quali il Petrarca fuggiva verso l'ideale) con la loro materialità, creando motivi di straordinaria comicità, vivacità e anarchia: lingua e sintassi colta, ideologia della classe dominante (istituzioni accademiche, titoli di cultura, organizzazione sociale) sono frantumate nei sonetti in cui Burchiello racconta le traversie della sua vita e satireggia personaggi del suo tempo. Con lui il particolare — interdetto dal Petrarca e dai rimatori aulici — rientra nella poesia per indicare che la realtà non è quella dei «trionfi» e degli eroi
  1. (… il gran miscuglio
  2. d'armi e d'amori di Bruti e di Catoni,
  3. con femmine e poeti in guazzabuglio),
degli dei e della mitologia ma quella delle case malandate, delle misere cene, della mancanza di danaro, delle malattie, delle deformità fisiche e morali.
In luogo degli eroi vincitori descrive le soldatesche avvilite che passano per Firenze
  1. (Fratel, se tu vedessi questa gente
  2. passar per Banchi tutti sgominati,
  3. con visi gialli, magri, affumicati
  4. e tutti si inginocchian per la fame)

invece del sublime amore di Petrarca le busse assestategli in presenza dell'amata dal padre quando Burchiello era ragazzo eroticamente intraprendente
  1. (E la mia vaga disse: "Deh, non fate!"
  2. quando mi vide il cul più ner che mora
  3. livido tutto per le gran picchiate)
invece della laurea in Campidoglio e dell'esame fatto da un re colto il dottorato ottenuto da ser Pecora (simbolo della ossequiosità accademica) e gli studi fatti «in Balordìa».
Feroce è quando, in prigione, scrive la satira contro i giudici ai quali ricorda («Magnifici e potenti Signor miei, | e venerabili Ordini») che il Visconti prese prigioniero Alfonso II d'Aragona mentre i suoi giudici hanno catturato Burchiello («Voi preso avete un…»). I suoi versi sono contro il sistema di ingiustizia:
  1. chi de' dar, domanda a chi de' avere […]
  2. colui che offende accusa poi il ferito […]
  3. prosciolto è il ladro, e giusto è poi punito
  4. e 'l tradimento tiensi un più sapere […]
  5. non val senza amistà ragione od arte.
Il più noto dei suoi componimenti è una disputa della poesia col rasoio; questo parla aulicamente: («Io ti prego mi perdoni, | donna, s'alquanto nel parlar ti noio») ma il componimento nella coda finisce col richiamare alla realtà materiale degli oggetti del lavoro e alle necessità del Burchiello. Il poeta rimò anche alla maniera oscura, in modo gergale e con parole apparentemente senza senso in una ridda di invenzioni
  1. (Io vidi un dì spogliar tutte in farsetto
  2. le noci e rivestire l'altra divisa,
  3. tal che i fichi scoppiavan dalle risa),
nonché di parodie di Dante
  1. (Sospiri azzurri di speranze bianche
  2. mi vengon nella mente e tornan fuori,
  3. séggonsi a piè dell'uscio con dolori
  4. perché dentro non son deschetti e panche),
del Petrarca amoroso e dell'anima che discende dal cielo, della falsa erudizione, con storpiature bizzarre e citazioni strane.
Il Burchiello continua felicemente una tradizione di cultura realistica e di protesta che non si piega alla letteratura colta dominante. I suoi imitatori che rimarono «alla burchia» scrissero ghiribizzi senza senso, assai lontani dal loro modello che, male studiato e male compreso, ebbe personalità vigorosa di dissacratore e oppositore.
Le laude religiose di forma drammatica hanno esteso pubblico popolare e prendono il nome di misteri, devozioni, sacre rappresentazioni quando si servono di apparati scenici divisi in scompartimenti per indicare i vari luoghi dell'azione. Forza drammatica e approfondimento psicologico sono poveri in queste sceneggiature di episodi dell'Antico Testamento, dei martìri di Santi (S. Ignazio, S. Margherita, S. Orsola), di leggende popolari. Maffeo Belcari fiorentino (1410-1484), autore di una Vita del beato Giovanni Colombini, compose la rappresentazione di Abraam e Isacco e narrò con semplice e schietta religiosità l'intervento di un angelo che impedisce ad Abramo di sacrificare il figlio, come al patriarca era stato ordinato da Dio. Alla fine l'angelo licenzia il popolo:
  1. Chiaro compreso avete il magno frutto
  2. dell'osservar tutti i divin precetti […]
  3. e innamorati di santa ubidienzia,
  4. ciascun si parta con nostra licenzia.
Vere e proprie novellette, alternate con esortazioni, rimproveri a fine di edificazione sono le prediche di Bernardino da Siena (1380-1444) nato a Massa Marittima e morto all'Aquila.
All'ambiente dei mercanti ci riconduce il fiorentino Giovanni di Pagolo Morelli (1371-1444) autore di Ricordi, mercante vicino alla logica conservatrice del proprietario terriero, all'etica tradizionalista e nemico di rischi e operazioni aleatorie: «abbiate nome di mercatanti —scriveva intorno al 1450 Giovanni Rucellai, arricchitosi con la produzione della lana, ai suoi figli — ma in facto che voi siate botteghai d'essere le sustanzie del traffico più tosto in Firenze che di fuori in mercanti, danari et debitori». Il Morelli raccomanda a chi sia richiesto di danari o di malleverie di starne lontano «quanto dal fuoco», e di fare

orecchie di mercatante […] ma vavvi co' calzari del piombo. Non t'obbrigare mai se non se' prima sicuro e guarda che la sicurtà sia sofficiente: non ti curare di perdere un poco di tempo, ma non volere perdere nulla del capitale».

Nel Morelli è anche la chiusa avarizia del villano contro il contado e i contadini: «Non compiacere mai di nulla al villano, ché subito il riputa per dovere; e non ti farebbe di meglio un festuco se gli dessi la metà di ciò che tu hai. Non ne volere mai vedere uno se non t'è di nicistà, non gli richiedere mai di niuno servigio se non come pagallo, se non vuoi ti costi l'opera tre cotanti. Non fare mai loro un buon viso […] Se niuno villano ti fa meno che 'l dovere, gastigalo colla ragione e non gliene perdonare mai niuna».
Oltrepassa l'impianto narrativo di Giovanni Gherardi di Prato, autore del Paradiso degli Alberti, delle Porretane di Giovanni Sabatino degli Arienti, delle Facezie del piovano Arlotto di Arlotto Mainardi, l'opera di Masuccio Salernitano3 (Tommaso Guardati, c. 1410 - c. 1475) che frequentò la corte aragonese e scrisse il Novellino in cui raggruppò a dieci a dieci cinquanta novelle secondo gli argomenti.
Masuccio non ha il distacco sereno del Boccaccio affascinato dalla realtà borghese e dai modelli cortesi, in lui è lo sdegno morale verso la realtà corrotta, il suo sguardo sul mondo è polemico contro donne lussuriose ed ecclesiastici. La satira è il tono delle novelle che non hanno intenzione di dilettare e si arricchisce di interessanti motivi di deformazione orrida e grottesca (congiungimento di una bella cristiana con un moro orribile, di una ricca e bella donna con un nano mostruoso, descrizione di lebbrosi, impiccati) che variano e incrinano la razionalità del Boccaccio. Nello stile spesso retoricamente ornato (nelle moralità e nelle dediche delle novelle) c'è l'imitazione del Boccaccio ma la lingua e i costrutti rivelano l'influenza del mondo dialettale napoletano, come in quasi tutta la letteratura dialettale meridionale dell'età degli Aragonesi.

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