Capitolo 4: La letteratura tra la società dei comuni e le signorie
Paragrafo 2: Francesco Petrarca e il valore autonomo e superiore della cultura


Società comunale e filosofia tomistica — la certezza politico-economica della borghesia e la certezza razionale cattolica — non fanno parte dell'universo culturale di Francesco Petrarca1 (1304-74), animato per tutta la sua vita da una tensione che lo induceva alla ricerca interiore. Cresciuto ad Avignone non rimase legato a un luogo ma la mobilità e l'inquietudine dell'animo lo fecero viaggiare per l'Italia e per l'Europa senza che egli si legasse a una cultura particolare. Fu sovranazionale e cosmopolita e affermò il valore della cultura in quanto tale, sciogliendola dalla visione del mondo, con la quale essa si identificava nel medioevo. Anzi alla letteratura e alla poesia assegnò la funzione di guida, funzione sociale, pubblica, istituzionale, attività formativa ed educativa e questo presupposto egli volle affermare con la propria incoronazione ufficiale sul Campidoglio (1341) di poeta riconosciuto e coronato di alloro. In questo senso la cultura non si lasciava escludere, nel suo rapporto con la politica, dalle strutture economiche dell'organizzazione dello Stato ma si proclamava valore superiore, capace di contribuire all'ideale politico dell'intellettuale, la concordia e la pace nello Stato.
In nome di questi valori Petrarca esaltò la cultura classica e quella cristiana: in esse trovava i modelli di valori intellettuali da proporre a un nuovo largo pubblico, della cui esistenza ebbe prima consapevolezza, nelle raccolte epistolari e nelle altre opere. Il Petrarca seppe trasportare sul piano storico dissidi e conciliazioni psicologiche personali, retorica e gusto letterario, in un'epoca di transizione, di formazione di un diverso stato politico (la Signoria), di una diversa cultura (da quella borghese a quella umanistica). Anche i suoi difetti e i suoi anacronismi — dichiaratissimi — si concretano nella realtà dell'ibrido stato signorile così da costituire un modello, da imporsi al di là delle linee di tendenza dell'età sua.
Questo modello che egli offriva è assai discutibile ma è una creazione usufruibile al massimo grado dalla società signorile delle corti e dalla dirigenza politica che in esse si praticava. Intellettuale tradizionale, cosmopolita credente nei valori di una cultura universale, legato al passato e al papato, assorbito dalle classi reazionarie e dalle corti, letterato aulico, il Petrarca riuscì a costruire anche con il vecchio materiale della tradizione un ruolo politico e culturale, il ruolo dell'umanista come tecnico della civiltà italiana dopo il tramonto dei Comuni.
Nel 1353 egli abbandonava la corte papale di Avignone e si trasferiva a Milano presso i Visconti dove iniziava l'esercizio della sua funzione di intellettuale di professione presso un potere politico in espansione, in un centro di grande rinnovamento. Presso lo stato visconteo poneva in termini nuovi il proprio rapporto di intellettuale con il potere ed esercitava in modo autonomo la propria attività: rapporti precisi con il potere, conquista di una sfera di iniziativa e competenza retorica.
Nel generale riassestamento delle funzioni sociali Petrarca ritaglia per il letterato uno spazio operativo definito e rappresenta l'intellettuale necessario a una società che cerca una mediazione ad alto livello tra cultura laica e valori religiosi. Nello Stato dei Visconti era il riflesso della generale situazione della incompiuta rivoluzione borghese, la compresenza di gruppi mercantili e feudali tradizionali. In questo nuovo equilibrio storico Petrarca è l'intellettuale portavoce dell'aristocrazia borghese che non è più quella comunale; è il letterato preumanista che ostenta il disprezzo per il presente ma in effetti interpreta la situazione presente signorile disprezzando non le aule della corte bensì il «vulgo», il lavoro manuale e artigiano, qualsiasi valore scientifico della cultura da lui ritenuto inferiore al sovrano lavoro letterario.
Rimproverato di essere diventato amico dei tiranni (i Visconti, ghibellini e in lotta con Firenze, per i quali egli aveva abbandonato la corte papale di Avignone) Petrarca risponde che «a virtù non s'inquina con la vicinanza della malvagità» e che la parte migliore di lui «o è libera oppure, priva di libertà per motivi gradevoli e nobili, non aspira ad essere libera in modo differente e teme di esservi costretta e vi si rifiuta». Aggiunge che, avendo ciascuno dei superiori, tutto si riduce al detto di Cesare «l'umanità vive per pochi» e

quei pochi per i quali si dice che l'umanità vive, non sono più temibili per i popoli di quanto i popoli lo siano per essi. E così quasi nessuno è libero; da ogni parte schiavitù e carcere e ceppi; […] non c'è località che non abbia la sua tirannide; dove non ci sono tiranni tiranneggiano i popoli.

Il Petrarca aveva compiuto la sua scelta politica con una evoluzione del proprio atteggiamento ma il momento politico non è autonomo dai miti e dai valori emblematici dell'universo petrarchesco di cui è custode l'intellettuale umanista. In questo senso il suo pensiero politico è veramente embrionale, i suoi riferimenti all'Italia sono letterari ma il Petrarca riuscì ad innestare i caratteri e le funzioni dell'intellettuale umanista negli sviluppi di una moderna Signoria a Milano. L'intellettuale con il Petrarca assume una forza sociale effettiva presso la corte e, anche se l'aretino sostiene di essere sopra gli schieramenti sociali cittadini, il suo schieramento è contro la «turba», «il vulgo», il suo rivivere l'antichità lo allontana dalla vita popolare. Dopo di lui il letterato di corte è una componente del potere, giustifica con le sue teorie le azioni del signore, è sostegno pubblicistico indispensabile oltre che arbitro, ambasciatore, intermediario, paciere, segretario.
In ogni caso il Petrarca visse all'ombra di personaggi cospicui ricevendo onori e prebende: Giacomo Colonna lo tenne con sé nel vescovado di Lombez dandogli benefici ecclesiastici, il cardinale Giovanni Colonna gli diede un ufficio ad Avignone, Roberto d'Angiò lo giudicò degno dell'alloro poetico, Azzo da Correggio lo volle come ospite, Clemente VI lo inviò presso Giovanna I a Napoli per difendere i diritti della chiesa, Carlo IV di Lussemburgo lo invitò a Mantova e lo creò conte palatino, Jacopo da Carrara signore di Padova gli fece conferire un canonicato, i Fiorentini gli restituirono beni confiscati al padre e lo invitarono, per mezzo del Boccaccio, a leggere nel loro Studio, dei Visconti fu oratore in occasioni solenni, ambasciatore a Venezia (dove il Senato gli concesse un palazzo a condizione che lasciasse alla repubblica la propria biblioteca), a Praga presso Carlo IV e presso il re di Francia a Parigi etc. Poté così godere di agiatezza e presso acque smeraldine del Sorga, boscaglie solitarie di Selvapiana comporre l'Africa, scrivere e ordinare le rime e, all'ombra viscontea, proseguire la raccolta delle Familiari e ultimare le opere ascetiche in latino.