Capitolo 21: Dalla Resistenza ai nostri giorni
Paragrafo 3: Morte del neorealismo; l'antirealismo


Nel neorealismo erano confluite diverse tendenze sperimentali (naturalismo, dialetto, lirismo etc.) che troviamo dai primi narratori come il viareggino Silvio Micheli (Pane duro, 1946) al livornese Ezio Taddei (Il pino e la rufola, Rotaia, 1946) a Renata Viganò (L'Agnese va a morire, 1949), a Dante Arfelli (I superflui, 1949), a Luigi Incoronato (Scalo a San Potito, 1950; Morunni, 1952) e a molti altri i quali gettarono le loro esperienze in stampi creati per l'occasione. Quelle esperienze, un tempo represse, mancavano della specificità dei termini della lotta di classe e della poetica realistica. Non bastavano l'antifascismo, il meridionalismo, l'operaismo o la Resistenza, i documenti psicologici o linguistici per creare opere d'arte. Tuttavia il neorealismo fu un largo movimento storicamente motivato e unitario il quale rappresentò nella pittura, nel cinema, nella narrativa, nel dibattito culturale, nel dialetto (scarsamente nella lirica in lingua, con l'eccezione di Rocco Scotellaro (1923-53) di Tricarico) il fervore di un rinnovamento democratico al quale vennero meno soprattutto il consenso di una società borghese (avviata, invece, verso un moderatismo di riassestamento come base per una egemonia disgregatrice), di una politica di classe (che evitasse lo sgretolamento e la diaspora dei lavoratori meridionali, strumento di superprofitto economico che consentì all'alta borghesia industriale di competere con l'industria straniera), di una struttura meno ricca di formalismi e di diverticoli decadenti nei letterati italiani.
Il viaggio percorso da alcuni scrittori che hanno avuto il battesimo nel neorealismo e hanno finito con l'approdare ad altre rive è significativo. Giorgio Bassani2 (nato nel 1916 a Bologna da famiglia ferrarese israelita) hanno brevissima durata e, soprattutto, legata alla soggettiva esperienza dello scrittore che rifluisce; a metà degli anni Cinquanta, negli anni difficili, alla «sua» letteratura preziosa, velata, dolente, elegiaca, fasciata di musiche, nemica delle problematiche storiche. Bassani ha fine educazione letteraria e mitizza una Ferrara magico-dolente alla De Pisis, borghese e decadente, circondata di solitudine, i quartieri abitati da israeliti, i parchi tra le tombe e mura: tutto è per Bassani segno esistenziale, pare che la vita (del perseguitato razziale, dell'esiliato dagli affetti) sia una pena continua che rende amare e soavi le cose, che la morte dia valore di amore alla vita. Tutto ciò è sulla linea del simbolismo crepuscolare intriso di religiosità (o di magia) dei pittori e poeti ferraresi (da De Pisis a Govoni) di questo secolo. Bassani soffre l'israelismo, la svalutazione della storia non gli consente di credere che la lotta politica antifascista possa modificare società e strutture; pena della vita e filtri agrodolci che ne possono derivare nella memoria costituiscono elementi della ideologia letteraria alla quale si unisce quella, non troppo rara, dell'incomunicabilità che nello scrittore acquista un fascino dorato, il flauto misterioso per il vasto pubblico che si interroga sul significato enigmatico. Diciamo questo perché Bassani con le sue atmosfere letterarie è uno scrittore di consumo che dai problemi evade verso il generico, scrittore-guida della svolta antirealistica suggestionato teneramente dalla prosa d'arte. Nelle Cinque storie ferraresi (1956), che racchiudono temi interessanti, la condanna al dolore prevale sui nodi storici. Nel Giardino dei Finzi-Contini (1962), elegia sulla scomparsa del passato borghese, il vagheggiamento di affetti, persone, luoghi sopravanza l'antifascismo moralistico: il libro pare costruito, con il suo dondolare tra sogno, idillio, elegia, come un calibratissimo prodotto consumistico. Anche in Dietro la porta (1964), L'airone (1968), L'odore di fieno (1972) Bassani inverte completamente la rotta portandoci dalla realtà alla letteratura filtrata. In verità Bassani era nato letterato come Cassola e la «poetica», nell'uno e nell'altro, ne condiziona gli orientamenti. Così i loro impegni politici e civili (intervallati dai numerosi premi che ricevono per le loro opere) sono più degli svaghi personali che dei veri impegni (l'uno e l'altro sono stati consiglieri di amministrazioni civiche; Bassani si occupa di salvare le opere d'arte, Cassola dell'abolizione degli eserciti).
Giuseppe Tomasi di Lampedusa4 (1896-1957; principe palermitano combattente nella prima e nella seconda guerra mondiale, ufficiale effettivo fino al 1925, lettore degli illuministi ma anche di Clausewitz e di cose militari), venne alla luce in un momento di delusione storica. Le analogie che il romanzo suggeriva implicitamente, tra la rivoluzione garibaldina che aveva portato al potere la destra moderata e la Resistenza italiana che era stata seguita dall'impantanamento politico, spiccavano chiaramente. Nel Gattopardo c'è l'amara filosofia dell'immutabilità delle cose, il punto di vista della vecchia aristocrazia siciliana che i mutamenti avvengono solamente nella facciata, nelle apparenze («Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi») e che l'Italia postgaribaldina sarebbe stata antigaribaldina: Savoia, borghesi e galantuomini ne sarebbero stati i padroni, l'aristocrazia sarebbe stata protetta dalla monarchia. Tomasi, prezioso descrittore di un mondo aristocratico che si muove in un ambiente decadente piccolo-barocco, presenta un Risorgimento non oleografico e un protagonista scettico, il principe Salina il quale vede un futuro deteriore per la Sicilia: «dopo sarà diverso, ma peggiore [...] chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene». La psicologia della decadenza trovava rispondenze sottili nella psicologia della delusione.