Capitolo 21: Dalla Resistenza ai nostri giorni
Paragrafo 2: Nascita e sviluppo della narrativa neorealistica


La guerra rivelatrice delle mistificazioni, degli errori del fascismo e portatrice di rovine mai viste, la Resistenza come fucina di volontà e di consapevolezze comuni, la cultura gramsciana, la presenza di masse popolari che si fanno carico di problemi generali e unitari costituiscono i fondamentali fermenti della tendenza verso il reale dal 1944 al 1955 circa.
Il neorealismo (ben diverso dall'avviamento realistico, indebolito da lirismo, decadentismo, degli anni Trenta) per un decennio costituisce l'asse strutturale di un rinnovamento che fu sentito come tensione morale, scoperta dei ceti subalterni, rivelazione di miti popolari paralizzanti, rinascita del mondo regionale, approfondimento dei temi della società contadina etc. Il fatto che in quel decennio la politica di unità nazionale delle Sinistre sia stata svuotata e stracciata dal neocapitalismo di classe, riorganizzatosi sul piano economico e trasformatosi culturalmente con la creazione del nuovo idealismo, lo strutturalismo delle scienze bianche, delle metodologie candide, senza macchie e senza pericolo, non può far dimenticare o abbassare l'importanza del neorealismo.
Contro il neorealismo erano allora gli ermetici (ma che cosa voleva dire ormai ermetico?) sbalorditi, i crociani della liricità cosmica, i cattolici clericali perché neorealismo voleva dire legame tra lotta politica contro la corruzione dei ceti moderati e lotta culturale per l'affermazione della ragione scientifica e morale. C'era contro tutta la vecchia Italia controriformistica, rinata dalle elezioni del 1948, l'Italia di Scelba che ostentava disgusto estetico verso l'arte sociale.
Il neorealismo, condizionato da opposizioni politiche che andavano oltre le sue ragioni culturali, fu privo di grande respiro ma ricostituì il mondo popolare ignorato dalle angosce, dai frammenti lirici, dai brividi esistenziali di ermetici e uomini in pena, lo portò alla luce con i suoi connotati dialettali, le sue stratificazioni. Ma tra gli scrittori che «andarono verso il popolo» Moravia vi andò con tutto il suo borghesismo nei Racconti romani (1954), Nuovi racconti romani (1959), La ciociara (1957), con i drammi dei suoi intellettuali.
La corsa di Moravia è stata parallela alla problematica della solitudine generata dell'impossibilità di entrare in relazione con gli altri (La romana, 1947; Il conformista, 1951; Amore coniugale, 1949; Il disprezzo, 1954; La noia (1960). Personaggio volontaristicamente presente nel dibattito culturale per i suoi interessi interdisciplinari, dal cinema all'antropologia (talvolta sorretti dal paradosso, dal cerebrale), Moravia continua la sua battaglia demistificatrice ma con la monotonia di chi scopre cose già sapute e che non dicono più nulla (Una cosa è una cosa, 1967; Io e lui, 1971).
Strenua ricerca di nuovo linguaggio narrativo e di rapporto con la realtà caratterizzavano il primo Vittorini creatore nella Conversazione in Sicilia di una nuova sintassi e di miti attraverso i quali filtrava la protesta. Quel libro supera l'indifferenza dello stato d'animo di «credere il genere umano perduto e non avere febbre di fare qualcosa in contrario». Era l'inverno 1936-37, Vittorini si lasciava dietro il naturalismo per potere esprimere una tensione di conoscenza, di ricerca e dare valore simbolico di condizione umana ai risultati della ricerca. Nella Sicilia offesa egli vedeva offeso l'uomo e in Uomini e no (1945), romanzo sulla Resistenza — alla quale lo scrittore, già incarcerato, partecipa — in cui c'è l'ambizione a esprimere l'esistenziale stato di uomini giusti e violenti urta contro la materia troppo prossima e folta di avvenimenti.
Come l'americanismo era stato un generoso mito utile a tenere viva la fede in un nuovo umanesimo, dopo che l'esperienza aveva dimostrato a Vittorini che la vita del suo tempo aveva polverizzato ogni parvenza di vecchio umanesimo (e si pensi al vetusto e lamentoso Panzini per vedere la novità e l'impegno vittoriniani), adesso lo scrittore il quale ha visto che la cultura non ha avuto la forza di opporsi al fascismo e di impedire la guerra, avanza la proposta di una cultura che non sia ancella della politica, non suoni solamente il piffero della rivoluzione ma sia essa potere e indichi alla politica la via rivoluzionaria:
  1. Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone: esigenze interne, segrete, recondite dell'uomo ch'egli soltanto sa scorgere e che è proprio di lui scrittore scorgere e che è proprio di lui scrittore rivoluzionario porre e porre accanto alle esigenze che pone la politica, porre in più delle esigenze che pone la politica.
Questa convinzione profonda Vittorini espresse generosamente nel clima di entusiasmo dell'immediato dopoguerra nel «Politecnico» (1945-47) fondato a Milano e in cui lo scrittore, diventato sensibile e lucido organizzatore di cultura, si impegnava nella lotta per il mutamento della società. Politecnico stimolò la conoscenza di Brecht, Pasternak, Lukàcs, Sartre, Wright, Hemingway, Majakovskij, compì inchieste sociologiche sulla scuola, il cattolicesimo, la Fiat, la Montedison, la Lucania etc. , cercò di oltrepassare il nazionalismo culturale (la cultura idealistico-nazionale della borghesia dominante durante il fascismo) italiano mirando a una cultura che si misurasse con i risultati alto-borghesi europei per mezzo di un linguaggio adatto a «tutti i problemi» (non solo, quindi, a quelli nazional-popolari).
Il pericolo della proposta di Vittorini era nel fideismo, nell'illusione che la cultura potesse modificare da sola le strutture, che le innovazioni formali e la carica morale pedagogica influissero sulla società sì da trasformarla. Si rischiava di cadere in un universo culturale umanistico-decadente separato dalla storia al quale la sinistra marxista oppose una cultura legata alla politica democratico-popolare e al mondo delle classi popolari. Il pericolo appariva anche quando in Il Sempione strizza l'occhio al Fréjus (1947) la miseria e la fame di quegli anni diventavano simboli universalizzanti che attutivano la tensione conoscitiva così caratteristica nello scrittore. Questi va alla ricerca degli uomini veri (suo motivo centrale) anche in Le donne di Messina (1949) in cui un gruppo di sbandati di guerra raccoglitori di rottami si fissa in un luogo e comincia a coltivare la terra, simbolo di una società che ricorda gli audaci pionieri del West; ma nella molto diversa stesura del 1964 il romanticismo del gruppo, costretto a scendere, dal colle appenninico, a valle, è guardato, attraverso l'esperienza del neocapitalismo, come un fallimento:
  1. Con la vostra economia di villaggio voi non avete prodotto in un anno che l'equivalente di quanto dieci operai di fabbrica producono in un mese [...] Certo che avete sbagliato... Altro che se avete sbagliato!.
A parte la pubblicazione dei lunghi racconti Erika e i suoi fratelli (precedente la Conversazione), La garibaldina (1960) e la stesura incompleta del romanzo Le città del mondo (postumo, 1969) Vittorini dal 1961 in poi è organizzatore di cultura attentissimo alla nuova narrativa (collana «I gettoni», «La Medusa»), al rapporto tra narrativa e industria, attività umanistica e scienza, neo-avanguardia etc. attraverso la rivista torinese «Il menabò» (1959-67) diretta dallo stesso Vittorini e Italo Calvino.
Tra impegno politico e dimensione esistenziale si svolge l'arte di Cesare Pavese negli anni del dopoguerra. La politica è per lui incontro con l'uomo per giungere all'autenticità ma la difficoltà di approdo, per tale via, alla felicità del mito risospinge Pavese verso l'angoscia di ritornare allo smemoramento dello stato prenatale in cui non esistono le indomabili pulsioni e incompiutezze dell'essere fornite dalla natura all'uomo: alterità dei sessi ed eros come illusione di compiutezza, speranza di progresso storico come autoconsolazione e come inganni della struttura biopsichica umana.
I miti sono chiariti nei Dialoghi con Leucò (1947) nel loro valore, per l'uomo, di consentirgli di scendere in sé e acquistare consapevolezza eroica del proprio destino di condannato. Nelle opere di questi anni (La casa in collina, 1947; Il diavolo sulle colline, 1949; La luna e i falò, 1950) Pavese riesce a controllare artisticamente l'espressione della propria angoscia personale (incomunicabilità tra gli uomini, paura della solitudine) e quella collettiva. Le illusioni della socialità sono svelate dal protagonista di Compagno (1947) e nessuna salvezza sarà possibile per chi non cerca di camuffarsi dietro paraventi perché ha visto con disperazione la realtà. Postumi (1951) furono pubblicati i versi d'amore (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi) per Costance Dowling e il diario Il mestiere di vivere (1952).
Il neorealismo di Vasco Pratolini è la prosecuzione dell'ambientazione dei personaggi del romanziere nelle strade popolane di un quartiere (Santa Croce) di Firenze. Questo mondo della piccola vita quotidiana è rappresentato in «cronache» affettuose, ricche di un antifascismo morale, punto di riferimento generale delle vicende. L'ambiente non è quello di una «classe» ma di una collettività, di gruppi di persone che maturano la loro esistenza anche attraverso momenti idillici, sentimentali che danno luogo al «populismo» dello scrittore (Cronaca familiare, 1947; Cronache di poveri amanti, 1947).
Pratolini si sofferma con partecipazione cordiale (quella di De Sica, De Filippo, Zavattini, della vita di rioni di povera gente) sul mondo popolare mentre in una storia italiana (Metello, 1955; Lo scialo, 1960; Allegria e derisione, 1966), un ciclo che va dalla fine dell'Ottocento al 1940, cerca di esprimere un neorealismo più complesso, che tocchi i momenti politici nodali della storia di quel tempo legando costume privato e vicende pubbliche. Il Metello, assai dibattuto, sembrò segnare (col contemporaneo film di Luchino Visconti, Senso) la volontà di distaccarsi dall'attualità, un segno di incrinatura del neorealismo. In realtà i due romanzi successivi a Metello e La costanza della ragione (1963) appartengono meno all'ispirazione genuina dello scrittore, sono tentativi di storicizzazione delle opere in un neorealismo più ricco e più complesso, più aderente a una visione politica che è meno privata della quale facciano parte le masse organizzate nel movimento popolare. Sono queste le opere meno riuscite di Pratolini.
Il problema della terra e dei contadini meridionali è al centro del romanzo Le terre del Sacramento (1950) di Francesco Jovine, il quale in esso compì un suo lineare sviluppo. Jovine non portò in questa opera esperienze culturali intimistiche, decadenti, elegiache, miti (il fiabesco della Signora Ava è del tutto scomparso) intorno al popolo né residui della propria storia di intellettuale, come accadde a diversi neorealisti, ma vide da artista la realtà di miseria e arretratezza del Molise attraverso la vicenda del piccolo intellettuale Luca Marano che riesce a individuare il proprio posto accanto ai contadini. Luca cresce come personaggio insieme con la individuazione della coscienza di classe, le masse contadine si riconoscono nella chiarificazione di Luca il quale, però, muore nella lotta dei contadini diventata ragione dello sviluppo della sua crisi e legame con un mondo di uomini alla cui liberazione la sua vita è di aiuto.
Completamente calato nel mondo contadino meridionale come uomo, pittore e scrittore fu Carlo Levi (1902 -1975). Era nato a Torino da famiglia borghese, ebraica, democratica, nipote di Claudio Treves. Laureatosi in medicina collaborò a «Rivoluzione liberale» di Gobetti, alla clandestina «Lotta politica» da lui creata con Carlo e Nello Rosselli, fu tra i fondatori di «Giustizia e libertà ». Venne arrestato nel 1934 e nel 1935 è confinato per un anno a Gagliano in Lucania; emigrato in Francia, durante la Resistenza fu arrestato a Firenze, dopo la liberazione diresse «L'Italia libera», giornale del Partito d'azione e fu presidente della Federazione dei lavoratori emigrati. Borghese settentrionale difese i valori del mondo contadino non già come residui da rimpiangere di un'età pre-tecnologica ma come sostanza umana i cui segni arcaici devono ritornare ad agire in una società trasformata:
  1. Questo mondo contadino — egli scrisse — ricchissimo di verità e di potenza umana, differenziato, pieno di personalità e della poesia delle cose nascenti, e, sotto l'apparenza della sua secolare immobilità, è tuttavia in movimento, alla ricerca, attraverso le infinite storie individuali e le sofferenze infinite della vita quotidiana, di una sua originale autonomia. Queste cose si possono intendere, assai più che nelle vicende, nelle lotte, e nelle sconfitte contadine, sul viso degli uomini, che hanno il valore poetico del primo farsi, della prima coscienza, della prima esistenza, che trapela, con tanto maggiore valore espressivo, sotto la dolente maschera ferma di una immobilità secolare.
Troppo affrettatamente la critica mise in rilievo aspetti «decadenti» di Levi di Cristo si è fermato ad Eboli (scritto nel 1943, edito nel 1945) nato dall'esigenza del mondo lucano durante il soggiorno al confino. Levi aveva cultura europea e la sua storia interiore era quella dell'intellettuale democratico che crede nell'alleanza con la base popolare e vede il taglio compiuto dal fascismo. Civiltà, storia come progresso, valore intellettuale cadono, in conseguenza, per Levi il quale al rapporto razionale col mondo sostituisce il rapporto magico-misterioso con le cose:
  1. Non esiste distinzione fra l'uomo e l'animale, fra l'uomo e la pianta; e il sole, la pioggia, la foresta, la generazione e la morte, il mondo intero che ci circonda sono tutt'uno con la persona che vive come un albero, si radica al suolo, fiorisce, dà frutto e, a suo tempo, avvizzisce.
Ma alla luce dell'impegno sociale, dell'antifascismo, del meridionalismo, degli interessi europei esistenzialisti e psicanalitici di Levi l'approdo al mondo magico contadino vuole essere non una regressione bensì un modo di allargare l'esperienza nella cultura contadina mitica e misterica per cogliere, più profondamente che con la sola storia razionale, l'umanità segreta e confusa nella storia della condizione contadina.
Non si tratta, perciò, di fuga nell'indistinto ma di una purificazione nei valori autonomi, di una liberazione dalla decadenza borghese. La funzione catartica della civiltà contadina e la necessità di conservare le strutture non sono senza ambiguità dal punto di vista storico e culturale, ma quei valori contadini per Levi sono anche valori di contestazione («gli usi antichi e le loro credenze ereditate, estranei e ostili allo Stato e alla storia...»); e Levi dalla rappresentazione di quel mondo come fonte di palingenesi è venuto passando al convincimento del processo di emancipazione sostenuto dalle lotte contro le millenarie soggezioni. Del resto al mondo dei contadini Levi oppone nell'Orologio (1950), romanzo-saggio sulla Roma del dopoguerra, la piccola borghesia parassitaria meridionale carica di accidioso reazionarismo. In questo libro Levi segna la delusione storica per la caduta dei valori della Resistenza e per la gravissima svolta moderata del 1948. Nei successivi libri sulla Sicilia (Le parole sono pietre, 1955), sulla Sardegna (Tutto il miele è finito, 1964), in quelli di viaggi nell'Unione Sovietica (Il futuro ha un cuore antico, 1956) e in Germania (La doppia notte dei tigli, 1959) il mondo contadino è visto nel suo cammino di emancipazione, di progettazione storica della rivoluzione, i suoi valori rimangono i più profondi e autentici anche in una realtà che economicamente creava straordinarie modificazioni.
Priva di miti è la visione che del mondo contadino ha Ignazio Silone2 (pseudonimo di Secondo Tranquilli di Pescina, 1900-1978) pubblica in italiano a Parigi Fontamara (1934) e a Lugano Pane e vino (1937), durante l'esilio, sicché i romanzi non furono conosciuti in Italia che nel dopoguerra. Lo scrittore (comunista espulso e poi risolutamente anticomunista) volle rappresentare all'estero le condizioni di vita dei «cafoni» abruzzesi per demistificare la cruda realtà nascosta dal fascismo. Dal Seme sotto la neve (1942) in poi Silone si volge verso l'umanitarismo cristiano, la saggistica politica (La scuola dei dittatori, 1962; Uscita di sicurezza, 1965) e la drammatica con L'avventura di un povero cristiano (1968) in cui rappresenta Celestino V.
Fortunato Seminara, che nel primo romanzo e in Il mio paese del Sud (1957, ma le cui novelle sono del 1934-38) aveva descritto nei modi di un naturalismo postverghiano il mondo dei derelitti per miseria materiale e morale (contadini, briganti, ladri etc.) precisa la sua poetica neorealistica incentrata sul «villaggio», un accumulo di storture e di errori, specchio microscopico di quel più vasto mondo che è l'intero Sud. Lo scrittore è impersonale di fronte alla materia ma pastori, caprai, contadini, giovani che scappano di casa per impossibilità di vivere nei tuguri affumicati, misere donne sedotte da violenti, figli illegittimi di signori sensuali e viziosi propongono il problema dell'ineguaglianza degli uomini del villaggio, la degradazione di un mondo che appare senza speranza.
In Disgrazia in casa Amato (1954) la descrizione lenta delle vicende causate da uno sfregio inferto per vendetta sul viso del maestro del villaggio esprime la vita arcaica, chiusa, del paese e nella Fidanzata impiccata (1957) le inibizioni e gli errori di una vita limitata dalla paura dello sguardo e dei detti altrui, del paese arretrato e malevolo, spingono la protagonista Laura al suicidio. In questo romanzo la morte di Laura si aggiunge al ritmo ossessivo della vita del paese veduto come un inferno. Nella Masseria (1952) ritroviamo personaggi delle Baracche in un ambiente cupo e corale ma in un momento più consapevole della lotta contro l'ingiustizia. C'è nel romanzo un tentativo di organizzazione di lotta, di ribellismo, svigorita dalla predicazione sociale profetica e oratoria.
Il più tardo Quasi una favola (1976) non modifica il naturalismo neorealistico di Seminara ma il romanzo Il vento nell'oliveto (1951), diario di un proprietario calabrese di netta ideologia borghese, ci induce in un altro aspetto della narrativa di Seminara, lettore fin dagli anni del fascismo, nell'esilio in Svizzera, di Tolstoj e Dostoevskij: l'intimismo. Qui, come nel grande diario di Laura della Fidanzata impiccata, Seminara descrive un dramma interiore con una forza e capacità di penetrazione che in quegli anni non ha eguali. L'intimismo di questo romanzo è complesso anche nella scelta del punto di vista del proprietario quale prisma per guardare la realtà morale: lo squallore del paese del Sud, la consumazione delle idee individuali nella fatiscenza angosciosa che tocca il limite del patologico, il levarsi di fioche speranze da tenebre profondissime: tutta la narrazione tocca il ristagno psicologico che nasce da mancanza di luce, di forza generosa e combattiva, la barriera psicologica, l'inerzia, l'attesa vaga, la pigrizia, lo stemperamento individuale nella palude del rimorso, della rigenerazione del proprietario nel buon senso borghese della famiglia e del parroco, motivi tutti che presagiscono la fine della stagione morale dalla quale il neorealismo aveva attinto la sua forza.
La definizione della realtà meridionale di cui Napoli fu capitale per secoli venne compiuta con opportune modifiche da Domenico Rea (1921-1994) di Nocera Inferiore il quale correggeva in Le due Napoli (1950) l'immagine folkloristica e giullaresca di una Napoli festante e mandolinistica e indicava la miseria e la tragedia come la vera sostanza della città. Qualche anno prima (1947) Rea in Spaccanapoli aveva presentato delle scene di vita napoletana di breve respiro e in una prosa talvolta barocca che altre scene (Gesù, fate luce, 1950) renderanno artisticamente più equilibrata. Ormai Rea, cantore dell'epopea della plebe prealfabetica napoletana, è venuto incardinando la propria arte intorno alle idee dell'inchiesta sul Mezzogiorno di Ritratto di maggio (1953): la realtà di una città misera e scontenta, di una plebe inconsapevole per eredità storica. Sicché nel romanzo Quel che vide Cummeo (1955) e nei Racconti (1965) Rea giunge alla realtà del mondo napoletano non da naturalista né richiamandosi al documento ma approfondendo la visione sociale. Nel romanzo Una vampata di rossore (1959) Rea porta alle conseguenze ultime, anche funebri, la tematica del dolore e della pena napoletani, giungendo con forza inventiva a caratterizzare un mondo che va in disfacimento.
Con il racconto La signora è una vagabonda (1968) siamo in una fase storica diversa: la plebe non ha speranza, hanno prevalso le classi elevate ma soprattutto i loro vizi. L'ulteriore saggistica (Fate bene alle anime del Purgatorio, 1973) rafforza le ragioni critiche della narrativa di Rea (rifiuto di Piedigrotta e scugnizzi) sempre più amaro, il solo scrittore nelle cui prime novelle del dopoguerra Carlo Muscetta sentiva «la virulenza, l'allegria del superstite che ha partecipato con intera vigilia del corpo al dramma dei fatti».