Capitolo 19: Società e cultura nell'età giolittiana
Paragrafo 8: La coscienza tragica di Luigi Pirandello


La coscienza della crisi dell'uomo è avvertita tragicamente da Luigi Pirandello1 (1867-1936). Nato presso Girgenti (oggi Agrigento), dopo avere studiato a Roma ed essersi laureato a Bonn, insegnò lingua italiana all'Istituto superiore di Magistero a Roma. Tra gli avvenimenti importanti della sua vita sono da ricordare il contrasto col padre, la frana che distrusse la miniera di zolfo in cui erano impiegati i capitali del padre e la dote della moglie Maria Portolano, la malattia mentale della moglie, l'attività di romanziere e, soprattutto, quella di scrittore di teatro che lo fa entrare nel dibattito mondiale, l'adesione al fascismo (1924), la direzione del teatro d'arte di Roma e la conoscenza dell'attrice Marta Abba (1925), la nomina ad accademico d'Italia (1929) e il premio Nobel per la letteratura (1934).
Pirandello inizia la sua attività muovendo da moduli veristi, paesani, dialettali ma per deformare grottescamente, nelle novelle, nelle prime commedie e nei primi romanzi, la realtà oggettiva del naturalismo. La sostanza tragico-esistenziale gli si svela a cominciare da quell'ultimo decennio dell'Ottocento in cui cadono gli ideali patriottici e scientifici della borghesia. Nel 1893 scriveva:

Ci sentiamo come smarriti, anzi perduti in un cieco, immenso labirinto, circondato tutt'intorno da un mistero impenetrabile […] Nessuno più riesce a stabilirsi un punto di vista fermo e incrollabile […] A me la coscienza moderna dà l'immagine d'un sogno angoscioso attraversato da rapide larve or tristi or minacciose, d'una battaglia notturna, d'una mischia disperata.

In una pagina epistolare familiare esprime la consapevolezza della crisi scrivendo che quando si osserva la vita come «un'enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai» si rimane «un viandante senza casa, un uccello senza nido», si sopravvive («Un concetto positivo e scientifico della vita, mi fa vivere come gli altri vermi»). Non c'è in Pirandello l'individualismo eroico di Michelstaedter nutrito di cultura mitteleuropea ma si presenta già da ora fino alla morte (dalla quale intende bandire il cerimoniale delle convenzioni:
  1. Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me)
la trama ideologica e psicologica dei temi che sostanziano i suoi irrazionalismo, soggettivismo, relativismo: dissidio tra Vita fluida e rovente e Forma in cui la Vita entra irrigidendosi e cristallizzandosi, morendo (amore di vitalismo, lotta all'organizzazione civile, sociale, politica, al socialismo, all'accademismo, ai generi letterari, alla consistenza in modelli: scrittore «senza latino» fu detto Pirandello), pluralità e relatività del punto di vista, impossibilità di consistere nell'unità e nell'idealità («Ogni unità è nelle relazioni degli elementi tra di loro; il che significa che, variando anche minimamente le relazioni, varia per forza l'unità»), vittoria della necessità sociale istituzionale sugli sforzi dell'individuo («Vuoi ribellarti? non puoi.
Prima di tutto non siamo liberi di fare quello che vorremmo […] tu sei prigioniero di quello che hai fatto, della forma che quel fatto ti ha dato»), illusorietà e inconsistenza delle certezze (le realtà sociali), assurdità della vita e impossibilità di modificarla etc.
Il fluire vitale diventa inconsistenza quando si determina nelle singole forme e negli esseri; la realtà è nella natura e al di fuori di essa non esiste libertà. Nel fissare e avere coscienza dell'assurdità della vita («nel mio cervello si fa un vuoto nero, orribile, raccapricciante, come il misterioso fondo del mare popolato da mostruosi pensieri che guizzano, passando minacciosi», scrive in una lettera) Pirandello partecipa delle avanguardie europee che rifiutano l'ottimismo e negano le convenzioni.
Anche la classe sociale è negata come forma che spegne la vita, lo stesso socialismo è un inganno che non può non mistificare la vita perché con l'illusione del progresso allontana l'uomo dalla conoscenza della condizione esistenziale del divenire e del non potere comunicare. Lo scrittore andò sempre alla ricerca sperimentale di nuovi modi di espressione dissolvitori del naturalismo ma anche dei modi comuni di pensare sicché spesso parve cerebrale e paradossale.
La materia narrativa è da lui sconvolta, il personaggio è distrutto, l'opera narrativa — che rappresenta il casuale, l'anormale, il patologico — illumina il magma mettendo in luce i meccanismi contraddittori della realtà. La tecnica e la poetica non possono essere quelle del romanzo e del teatro borghese ottocenteschi, del mondo delle mistificazioni. Pirandello deve rappresentare l'uomo alienato nei rapporti umani e sociali, non comunicante con gli altri, quella condizione umana che egli verificava storicamente nel suo tempo.
Egli è agli antipodi di Croce il quale distingue poesia e non-poesia per scartare l'irrazionale, il pragmatico, il decadente dall'arte. Pirandello deve aprire le porte dell'arte all'irrazionale che esprima la solitudine, lo scacco, la tragedia dell'uomo e nel saggio L'umorismo (1908) teorizza quale nuovo stampo artistico l'umorismo inteso come «sentimento del contrario». Croce cerca la liberazione estetica nell'armonia lirica, Pirandello tende a rappresentare la problematica delle opposizioni, delle contraddizioni, a calare il momento critico della riflessione nell'arte perché non trionfi il falso squilibrio dei sentimenti ma scoppino l'illogicità, la tragicità.
Il mondo estetico, la «pura bellezza» di D'Annunzio, la «bella morte» di Fogazzaro, le «anime belle» vengono spazzate via da Pirandello che nel denudare le illusioni vi porta la riflessione sul modo in cui funziona il congegno degli inganni. Croce dell'Estetica, Croce filosofo (che per Michelstaedter aveva la «sciagurata abilità di eliminare sempre da ogni questione quella che appunto è la questione») è per Pirandello incapace di «abbracciare tutto il complesso fenomeno artistico», la riflessione come potenza creatrice, come «specchio di acqua diaccia» in cui si tuffa «la fiaccola del sentimento […] e il friggere dell'acqua è il riso che suscita l'umorista»: l'opera d'arte non può nascere che «dal contrasto tra il caldo del sentimento e il freddo. della riflessione».
Vita vissuta, disposizione pessimistica che approfondisce la visione sono i motivi dell'umorismo, modo nuovo per rappresentare la vita come dramma, gli istinti, la follia («L'ordine? La coerenza? Ma se noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro…?»). Arte, quindi, non come estetica ma come espressione di tragico riso, di umanità dolorosa, di coscienza grottesca, di amarezza che rivela il fondo della nostra vera vita.
In Il fu Mattia Pascal (1904) Pirandello scopre l'impossibilità di vivere liberamente senza essere schiacciati dalle regole che gli uomini si sono dati associandosi; in I vecchi e i giovani (1909) lo scrittore esprime il pessimismo sul fallimento degli ideali del Risorgimento, delle classi dirigenti siciliane, del socialismo guidato da dirigenti poco responsabili. La narrativa, dal giovanile L'esclusa (1893) a Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925, ma già edito col titolo Si gira, 1915) e ad Uno, nessuno e centomila (1926), è raccordata attraverso la pubblicazione di almeno duecento novelle (Novelle per un anno).
Ma la rivoluzione culturale pirandelliana avviene con la battaglia condotta per mezzo di un teatro antitetico a quello realistico-borghese, con il teatro di idee e di problemi che scardina gli schemi banali, le opinioni correnti, il buonsenso torpido e sonnacchioso. Fin dai primi drammi siciliani o legati al mondo dialettale (Pensaci, Giacomino, Il berretto a sonagli, La giara, La patente) le soluzioni sono nuove; da Così è (se vi pare) (1917) Pirandello fa vedere al pubblico borghese e piccolo-borghese la scomposizione e l'inconsistenza della personalità e, attraverso Tutto per bene, Come prima, meglio di prima, Il gioco delle parti, la psicologia senza «io», il contrasto tra il flusso vitale e il tentativo di fissarlo in forme stabili e determinate.
Il teatro stesso, come simbolo di questo contrasto, diventa oggetto di rappresentazione in Sei personaggi in cerca d'autore (1921), Ciascuno a suo modo (1924), Questa sera si recita a soggetto (1930), opere di avanguardia europea che corrispondono storicamente alla coscienza della crisi del dopoguerra, al rifiuto di una realtà che reimponeva convenienze ed errori come vita vera. Pirandello svelava deliri, illogicità, faceva vedere che quella realtà era finzione. Illusione è la democrazia e il tiranno che combatte l'illusione della libertà, della legalità, chiarisce al singolo l'impossibilità di cristallizzare nella finzione della classe sociale il flusso della vita.
L'appartenenza a una classe è alienazione (chiusura in una forma), la lotta politica è alienazione rispetto alla condizione esistenziale; il fascismo, privo di un programma di classe, inizialmente, parve a Pirandello fatto spontaneo, creativo, non ancora «forza», datore del beneficio di non illudersi di raggiungere il riscatto attraverso la rivoluzione sociale. Il tiranno fascista è, per Pirandello, in quanto non dà libertà (sempre fissa) antitetico al tiranno sociale (che dà illusione): nessuna libertà è per l'uomo. Era la conseguenza dell'esasperazione dell'assoluto esistenziale come condanna per l'uomo senza possibilità di riscatto.
L'ultimo Pirandello compone dei «miti», La nuova colonia, Lazzaro, I giganti della montagna. Le grandi espressioni tragiche, grottesche di Pirandello sono espresse in una lingua omologa, antiformalista, non toscana, non austera, tesa a fissare le contraddizioni attraverso le interiezioni che sembrano fare la mimica dei gesti, delle smorfie ma anche sottolineare il lacerante sentimento di pena che lo scrittore prova per le certezze deluse dei suoi personaggi.
Da Pirandello derivò il teatro del «grottesco» fondato sul contrasto tra apparenza e realtà e che è rappresentato da Luigi Chiarelli (1884-1947) di Trani, autore di La maschera e il volto (1916; celebre commedia in cui un uomo accusatosi di avere ucciso la moglie che lo ha tradito è assolto per l'arringa veemente dell'amante della donna; la moglie ritorna a casa quando si celebrano i funerali di altra donna identificata per lei; ma il marito è perseguitato dal magistrato come simulatore di reato e deve espatriare con la moglie) e da Pier Maria Rosso di San Secondo (1887-1956) di Caltanissetta, autore di Marionette, che passione (1918), Lazzarina tra i coltelli (1923), Una cosa di carne (1924).
Il teatro di Rosso di San Secondo esprime in modo espressionistico la forza della passione, il modo intenso di viverla, lo svolgimento che essa porta nell'uomo tanto da segnarlo con connotati esistenziali. Si tratta di un teatro che rinnova quello naturalistico e si svolge superficialmente, però, sul piano del mutamento di visione e di linguaggio che ha luogo nella poesia e nella prosa del Novecento.