Capitolo 19: Società e cultura nell'età giolittiana
Paragrafo 4: Il «fanciullino» e la novità lirica di Giovanni Pascoli


Mentre D'Annunzio si pone alfiere del superuomo dell'industrialismo nella sua capacità aggressiva e imperialistica Pascoli1 presenta con i suoi miti le contraddizioni della piccola borghesia anche socialista la quale cerca la conciliazione interclassista (voluta da Giolitti per dare spazio al capitalismo industriale) e si ripara nel territorio che ritiene non battuto dalla lotta, quello della radunata degli uomini di buona volontà e di buoni sentimenti.
Questa posizione è dell'età matura di Pascoli e coincide con la caduta del positivismo, dei valori della ragione e della scienza, con lo sgomento di fronte alla potenza capitalistica e tecnologica, con le possibilità di avanzata del socialismo solo in quanto movimento di lotta di classe.
Diversa è la condizione storica di Pascoli giovane. Nato a S. Mauro di Romagna (1855-1912), nel 1867 perdette il padre Ruggero, amministratore di una tenuta dei Torlonia, ucciso da sconosciuti. La morte della madre e di tre fratelli, immediatamente dopo, dissolve la famiglia mentre la sorella Maria seguirà Giovanni nella vita di insegnante che lo porterà a Matera, Massa, Livorno, alle università di Messina, Pisa e Bologna. Pascoli studia a Rimini quando in questa città si tiene (1872) il congresso della Federazione italiana dell'Associazione internazionale dei lavoratori con la presenza di Carlo Cafiero e Andrea Costa. Con Costa collaborò nel 1876, nel 1879 fu imprigionato a Bologna. Dal 1895 visse spesso nella casa di Castelvecchio in Garfagnana.
Pascoli conosceva Costa internazionalista quando la Romagna era una base bakuniniana e in tutta Italia scoppiavano, per la carestia del 1873-74, i tumulti «annonari». Sul riminese Nettuno di Domenico Francolini internazionalista Pascoli pubblica (1878) La morte del ricco, un esempio di brutta poesia sociale che nasce, però, da sentimenti sociali di una base contadina formata da braccianti oppressi da condizioni insopportabili di vita, dal loro parlare dialettale asciutto dei mercati, delle fiere, delle piazze. Era l'ambiente in cui Giustiniano Villa (che ebbe Pascoli come ascoltatore dei suoi versi a Savignano) diffondeva la narrazione dei contrasti di classe, delle lotte sociali di braccianti, salariati, bovari.
Il fatto fondamentale della giovinezza di Pascoli romagnolo è la polemica culturale per una società nuova che è sorretta dalla partecipazione popolare e da un largo consenso di intellettuali.
La campagna descritta da Pascoli è popolata da massaie, contadini, lavandare, mendichi, galletti, vacche, merli, pettirossi, rondoni; in essa gli oggetti della vita e del lavoro acquistano un concreto valore (la marra, il forcone, il fieno, il granaio, l'aratro), i luoghi diventano il centro della vita degli uomini e degli animali (aie, osterie, casolari, campi, fratte, zolle) e le piante (pampani, olmi, radicchi, mortelle, lupinella) sono oggetti di lavoro e sono utili ad alimentare uomini e bestiame.
Finiva di esistere la campagna letteraria, quella di D'Annunzio abitata da fauni e ninfe e cosa nuova era la chiassosa osteria pascoliana del villaggio campestre:
  1. L'osteria della Pergola è in faccende:
  2. piena è di grida, di brusio, di sordi
  3. tonfi: il camin fumante a tratti splende.
Nelle prime Myricae (1891), che prendono il nome dalle umili tamerici virgiliane, natura e campagna sono colte con semplicità immediata, priva di schermi letterari che, però, nelle successive edizioni si incupisce per il peso di una coltre funeraria che ammanta il nuovo tono psicologico pascoliano: uccisione del padre e altri lutti familiari, dolore per le vite spezzate, per la violenza non punita, per l'ingiustizia recata al poeta dalla società sono elementi di un male che è nella natura, immensità cosmica e misteriosa che dà all'uomo il sentimento di piccolezza e di angoscia.
La natura (positivisticamente intesa) è inconoscibile, l'ombra delle cose è più importante delle cose stesse, il dolore per gli oggetti perduti (il nido, la casa, la famiglia) comincia ad essere espresso con la vaghezza ideativa, l'immaterialità, la disposizione all'espressione indistinta che sono del decadentismo. Tutto vi appare franto, rabbrividente, il paesaggio è musica vaghissima:
  1. Le stelle lucevano rare,
  2. tra mezzo alla nebbia di latte […]
  3. Su tutte le lucide vette
  4. tremava un sospiro di vento…
In nessun poeta di fine Ottocento la frattura del passato della tradizione è così netta e aperta verso il futuro. Le ultime edizioni di Myricae ci avvicinano alla poetica di Il fanciullino (1897), un testo di grandissima importanza, in cui Pascoli teorizza la poesia come irrazionale facoltà lirica che deriva da sensazioni genuine e immediate, da fantasia e sentimento. La sensibilità di Pascoli è il supporto del «fanciullino»:
  1. È dentro un fanciullino che non solo ha brividi […] ma lagrime ancora e tripudi suoi […] egli confonde la sua voce con la nostra […] egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello […] Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione […] accarezza e consola la bambina che è nella donna […] A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra.
Ma tale poetica ha anche un valore storico per i legami con il decadentismo. Non era certamente la poetica dei grandi decadenti europei che esplorano gli abissi psicologici: era un porto sicuro contro la violenza della società, un rifugio contro l'ingiustizia, era un universale psicologico a cui si potevano miracolosamente affacciare uomini di tutte le classi.
Pascoli trasferiva sul piano di poesia e non-poesia le antitesi e le contraddizioni sociali: ormai, caduta la fede nell'uomo, capitalismo e borghesia, ma anche socialismo, erano la non-poesia (Virgilio voleva «abolire la lotta tra le classi e la guerra tra i popoli. Che volete voi, o poeti socialisti, che dite cose tanto diverse e le dite tanto diversamente da lui?»); alla poesia del «fanciullino» non appartenevano «con pace del maestro [Carducci] un artiere che foggi spada e scudi e vomeri», né l'artista [D'Annunzio] «che ceselli l'oro che altri gli porga», né il filosofo, né l'«autore di provvidenze civili e sociali» (se non inconsapevolmente) né l'imitatore né chi fa opera di ornamentazione.
Poesia è, per Pascoli, ciò che esiste nella natura come purezza psicologica e di sentimento. Il «fanciullino» dà valore etico a ciò che è georgico, rurale, semplice, al simbolico «pane settimanale», a taluni contenuti piuttosto che ad altri: «Amatevi tra voi nell'ambito della famiglia, della nazione e dell'umanità» si dice nella premessa ai Poemetti (1897) e ormai Pascoli — che vede l'autoliberazione nell'infanzia — non intende più che l'attività dell'uomo è lotta sociale.
Nella poesia Pascoli abbandona la fermezza visiva di Mirycae. Nei Poemi conviviali (1904), che il poeta cominciò a pubblicare sulla rivista Il convito, il contenuto si svigorisce, la materia diventa letteraria, la natura è lontana: «il sogno è l'infinita ombra del Vero». Il poeta si arricchisce di deboli ambivalenze psicologiche astoriche, di motivazioni generiche quali quella della pietà che si deve all'uomo in quanto essere infelice.
La metafisica del male e del dolore, il problema della morte e del mistero diventano temi centrali: «io sento che poesia e religione sono una cosa» (in Un poeta di lingua morta del 1898, in cui l'esaltazione del retrivo Diego Vitrioli coincide col ripudio del socialismo scientifico e col ripiegamento su motivi pacifisti e patetici). Nel discorso messinese L'era nuova (1899) il nodo di tutto è la religione, «cioè il riconoscimento del nostro destino» e nello stesso anno scrive al Mercatelli:
  1. Io mi sento socialista, profondamente socialista, un socialista dell'umanità, non d'una classe. E col mio socialismo, per quanto abbracci tutti i popoli, sento che non contrasta il desiderio e l'aspirazione all'espansione coloniale.
Nei discorsi messinesi — in cui c'è l'esperienza del problema meridionale, dell'emigrazione etc. — Pascoli vede un'Italia «divisa ed errante e faticante e schiava». In Una sagra (1900) si parla di «socialismo patriottico», dell'«Italia pensante» che «ha tradito la sua sorella povera: l'Italia lavorante», della «riconquista dell'Italia nomade». Tradimenti degli intellettuali ma, soprattutto, sfruttamento del lavoro italiano da parte delle nazioni ricche: la lotta fra le nazioni sostituisce quella fra le classi poiché Pascoli vede un'Italia interamente proletaria (sia borghesi sia contadini).
Il mondo delle piccole cose ritorna con le sue virtù e i suoi sentimenti nei Canti di Castelvecchio (1903) in cui sono le grandi liriche Casa mia, Mia madre, Commiato, un trittico ispirato al ricordo della madre e mirabile per l'armonia dell'elemento sensibile e di quello affettivo:
  1. Si chiudevano i casolari.
  2. Cresceva l'ombra delle cose.
  3. Ancor tra i lontani filari
  4. traspariva color di rose.
Il mondo domestico-rurale con i suoi riti per i vivi e le sue memorie dei morti rappresenta l'identità dell'uomo che ritroviamo nei Nuovi poemetti (1909) con l'efflorescenza rigogliosa e spontanea della natura, col sogno d'amore di Rigo e Rosa.
I sostegni spirituali di Pascoli continuavano a essere il classicismo, filtrato attraverso la sua poetica, e il mondo georgico dai quali spesso l'ispirazione si muoveva verso il sovrasensibile con accenti ricchi di nuovissima suggestione e non facilmente dimenticabili. Maestro di «ars dictandi» creò modi originali per esprimere le impressioni più impreviste e infranse il linguaggio della tradizione formando gli strumenti della lirica nuova a tutti i poeti del Novecento.
La crisi esistenziale e culturale dell'ultimo decennio dell'Ottocento fu da lui profondamente avvertita e scontata con la cancellazione di ogni prospettiva politica e storica. Non che egli non vedesse i problemi, ma nel rapporto con la pubblica opinione accettò la realtà e gli orientamenti politici ufficiali del suo tempo preoccupandosi di preservarsi, fra le contraddizioni, l'angolo della poesia, creatrice e consolatrice, nella quale sotto aspetto di bontà potessero entrare il socialismo (purché patriottico, cioè generalizzato), le classi sociali (ma in armonia tra di esse), la politica (ma senza partiti). Tutte le guerre poteva egli cantare purché ricondotte nell'alveo idillico-eroico del mondo classico (come nei Conviviali), il socialismo diventava per lui la vita umile: «Oh! nessuno, all'ombra della grande Italia, resti senza pane! — scriveva in Antonio Mordini in patria (1905) — nessuno manchi di tutto!».
Oggettivamente ciò coincideva con la politica ufficiale, cioè Pascoli dava una soluzione moderata ai problemi che pur vedeva e le tante celebrazioni di eroi di Odi e inni (1906), Poemi italici (1911), Canzoni di Re Enzio (1911) si distendono sul piano poetico dell'eroico umano, del «panitalismo» di un'Italia che «in cinquant'anni aveva rifoggiato saldamente, duramente, immortalmente il suo destino» (La grande Proletaria si è mossa, 1911).
A questa ideologia (che non era del solo Pascoli) e all'equivoco della poesia che è nelle cose si volsero legioni di piccolo-borghesi e di senza partito e il pascolismo sentimental-patriottico è stato un fenomeno deteriore. Tuttavia non Pascoli può essere gravato (col facile senno di poi) del peso di ideologie in cui egli cercava di salvare l'uomo-fanciullino per una mitica palingenesi morale. Pascoli fu, con tutti i suoi miti, un portatore di novità nell'arte nel linguaggio del Novecento e anche i suoi poemetti latini hanno suggestioni assai moderne e ricche di sensibilità.