Capitolo 17: Crisi e delusioni post-risorgimentali
Paragrafo 1: Risorgimento moderato e arcadia postromantica


Dopo il fallimento, nel 1849, delle rivoluzioni il Risorgimento ha una conclusione moderata per opera di Cavour e della sua diplomazia. Ma il trionfo diplomatico, favorito dall'Inghilterra e dalla Francia, era parallelo all'interdizione delle forze popolari dalla partecipazione diretta alla rivoluzione nazionale e alla sovrapposizione dello Stato sabaudo agli altri Stati della penisola. Le vecchie classi dirigenti venivano ancora cooptate alla direzione del nuovo Stato che nasceva classista e moderato.
Le sterminate masse di contadini del Sud e della Valpadana attendevano la rivoluzione agraria ma antichi feudatari e neoagrari succeduti ai feudatari mantennero il possesso della terra e nel plebiscito per le annessioni baroni e galantuomini votarono per il re sabaudo, consapevoli che sarebbe stato mantenuto lo «status quo». Le classi nazional-borghesi, che vedono riconosciuta la loro egemonia padronal-agraria sullo sterminato contadiname dell'Italia quasi totalmente rurale, favoriscono la penetrazione, l'assestamento, la politica regia piemontese che ad Aspromonte e Mentana elimina anche il volontariato garibaldino. Tale politica, già funzionale al moderatismo della borghesia, diventa rapidamente conservatrice in funzione del capitalismo agrario che penetra nelle campagne distruggendo le strutture contadine preborghesi e la cultura delle classi subalterne.
Questa sorta di trasformismo (che culminerà in quello ufficiale del 1876) era un metodo politico stabilito dai moderati fin dalla caduta dei moti quarantotteschi e delle utopie neoguelfe, federaliste e accompagna l'esito di un Risorgimento senza rivoluzione. Da allora in poi i moderati ripetono «indipendenza e unità» per «deviare l'attenzione dal nocciolo alla buccia» (Gramsci), per evitare che la partecipazione del popolo alla lotta per il Risorgimento diventi lotta sociale per la riforma agraria, vero obiettivo e vero interesse nazionale delle classi popolari, dello sterminato esercito di contadini senza terra.
Che la conservazione delle terre, al contrario, fosse l'obiettivo degli agrari si vide nel 1853 quando l'aristocrazia milanese si prostrò a Francesco Giuseppe, poco prima delle esecuzioni di Belfiore e quando, nel 1859, i moderati toscani (agrari, imprenditori, finanzieri) «si aggrappavano alle falde del granduca per non farlo scappare» (Gramsci). Con la loro operazione trasformistica, segno dell'egemonia politica esercitata in modo particolare, i moderati disgregarono e modificarono il poco omogeneo e molto timido partito d'azione, privo di un programma di direzione politica, incapace di attuare le rivendicazioni popolari (riforma agraria) che gli avrebbero dato una fisionomia politica.
Invece il partito d'azione, chiuso nella sua retorica unità politico-culturale incentrata su una tradizione formalistica (che non toccava i ceti rurali) non vide neanche il problema del rapporto tra città e campagna in funzione risorgimentale e i suoi uomini migliori, cominciando da Mazzini, si lasciarono influenzare dall'egemonia trasformistica politica dei moderati: sacra e santa missione risorgimentale e terra agli agrari vecchi e nuovi. In questa «putrefazione» (così De Sanctis là chiamò) postromantica, politico-pedagogica, la cultura perde le motivazioni concrete e vive in letargo.
Paura della rivoluzione parigina del 1848, riflusso ideologico del mazzinianesimo dovuto al fallimento rivoluzionario italiano del '49 sospingono la letteratura tardoromantica verso un'arcadia di sentimentalismo e un vagheggiamento di atmosfere vaporose.
Questa letteratura rende dolci e patetici i motivi della patria, della fede, dell'amore e incentra le sue ragioni d'arte sulla gentilezza del cuore e della natura, svigorisce ad uso di un pubblico prevalentemente femminile la figura del poeta che diventa un personaggio eccezionale per la sua sensibilità e superiore alla realtà pratica ed economica.
Nasce il mito della poesia come idealità vaga, ma con localizzazione in un salotto confortato da accordi di pianoforte e da dipinti di innamorati languidi e avvinti come l'edera. Questa poetica borghese tardoromantica è un aspetto assai importante di un costume sonnacchioso, fiacco e autonobilitantesi nel suo sentimentalismo.
Essa si esprime pienamente in Aleardo Aleardi1 (1812-78) di Verona e Giovanni Prati2 (1814-84) di Campomaggiore nel Trentino, poeti di consumo, di ideali anticontadini, innamorati della bellezza del cuore e, in virtù della loro poetica, superiori al volgo. Aleardi, che fu patriota incarcerato, professore di estetica, precursore di tanti idealismi misticizzanti nelle Lettere a Maria (1846), di endiadi patria-amore con le sue donne estenuate che avevano il nome Italia, è capace di rendere leziosi anche i mietitori che dall'Abruzzo (ai quali «la passion dei ritorni addoppia — col domestico suon la cornamusa») scendono nelle paludi pontine. La storia con Aleardi, incapace di uscire dal linguaggio floreale e andare verso il concreto, diventa arabesco ed è romanticizzata.
Anche Prati fu patriota, incarcerato ed esiliato, fervente monarchico. Poesia lirica e narrativa cozzano nei suoi moltissimi versi. Edmenegarda (1841) tratta di un fatto di cronaca, un adulterio seguito da rimorso ed espiazione ma il manierismo prevale nelle ballate medievaleggianti, nelle rievocazioni fantastiche della storia. Per byronismo scrisse poemi come Rodolfo (1853), Armando (1868), fuori tempo e fuori luogo. La sostanza artistica di Prati, velleitaria ed enfatica, accompagna degnamente la svolta politica moderata del suo pubblico. Desistenza dall'operare, affidamento alla natura eterna e sapiente ritiro nella letteratura sono i motivi ideologici degli ultimi scritti, Psiche (1876), Iside (1878).
Prati aveva alta coscienza di sé ma anche il poeta Enrico, personaggio di Miranda (1874) di Fogazzaro, perdigiorno e genio incompreso, si autoesalta («rifiuta indegni | ceppi di te che alto fato aspiri») perpetuandosi nell'ideologia etica fogazzariana postromantica di «..ecco il poeta, | ecco l'altezza ed ecco la virtù!»: ideologia di una verità del cuore, scriveva Fogazzaro a Gino Capponi, «che valga a sollevare lo spirito sopra le tristi realtà ond'è ferito ogni giorno».