Capitolo 14: Società e cultura nell'età napoleonica
Paragrafo 2: Novità della cultura giacobina: il dialetto in funzione rivoluzionaria (Mannu, Cardone, Calvo). F. S. Salfi. Le correzioni di Cuoco


L'età giacobina non offre arte «pura» ma le più specifiche manifestazioni culturali sono la satira, la protesta, sorrette da precise ragioni teoriche oltre che politiche. Il giacobinismo ebbe un carattere popolare, ha rappresentato una misura politica della nostra cultura e si è manifestato intensamente nel teatro, nel giornale, in una letteratura poetica espressa in dialetto come autentica produzione del popolo rivoluzionario.
Già gli intellettuali appartenenti al movimento illuministico avevano creato una cultura (e una opinione pubblica) più concreta di quella dell'età dell'Arcadia e avevano sperimentato nuovi strumenti di comunicazione (gazzette, fogli volanti). Inoltre avevano acquistato coscienza del loro ruolo pedagogico e culturale, di guida nella società e in molti di essi si era verificato uno scatto psicologico e politico che li aveva trasformati in intellettuali attivi. Il tardo-arcade Aurelio Bertola, diventato giacobino, ad esempio, nel proporre un piano repubblicano di pubblica istruzione, così scriveva:

Il popolo ha un'enorme benda agli occhi: facciamo di strappargliela: abbia egli un'idea di ciò che egli è stato, di ciò che egli è, di ciò che deve egli essere: questa fatale ignoranza fomentata segretamente e con mezzi terribili dai nemici nati del pubblico ben essere, questa ignoranza che fa continua guerra ai salutari effetti della provvidenza di chi governa, questa lo espone, anzi lo getta in braccio alle insidiose sorprese di male intenzionati che trovano una facilità senza pari di poter calcare di gagliarde impressioni su questa cerea superficie. Alla Municipalità di Venezia, per ovviare o metter riparo a siffatto male è stato, ne' di passati, proposto da uno de' suoi comitati di procacciare le più accreditate gazzette patriottiche e di spargerle in luoghi determinati perché il popolo vi legga i suoi interessi politici e commerciali […], Ma, e non si potrebbe egli compilare un foglio, il qual contenesse il succo spremuto da' molti e migliori fogli patriottici, e versar poi codesto licor salutare nel seno della nostra gente e purgarla de' pregiudizi ed animarla di nuova vita veracemente repubblicana?

Nel Bertola giacobino, come in altri, erano i motivi di lumi e istruzione per il popolo; in altri era una fede mitica nel popolo e in altri ancora mancava il realismo della strategia politica o era presente il rischio di cadere nell'astrattezza. Però negli intellettuali giacobini più avanzati la polemica letteraria sinuosa e vischiosa cede allo scontro ideologico-politico (di politica culturale) tra rivoluzionari e controrivoluzionari.
Furono i giacobini i primi intellettuali nuovi i quali ruppero con forza ideologica le acque stagnanti del quietismo, si vennero collegando con gli altri rivoluzionari francesi ed europei e con le loro ideologie. Essi per primi infransero le incrostazioni del feudalesimo, dell'assolutismo, della controriforma e diedero il loro contributo anche teorico oltre che politico e pragmatico con progetti di riforme (Girolamo Bocalosi, Matteo Galdi, Francesco Saverio Salfi, Giuseppe Gioanetti, Lorenzo Mascheroni etc.), con la letteratura, con il teatro, con la poesia. Coloro i quali fanno coincidere i concetti di popolo e rivoluzione sono soprattutto il romano Enrico Michele L'Aurora, il napoletano Vincenzo Russo; in Toscana Francesco Maria Gianni interpretava le tendenze moderate, nel Veneto Melchiorre Cesarotti esprimeva le paure dei moderati.
Esiste una letteratura giacobina in lingua ma la letteratura dialettale delle gazzette, delle sceneggiate, dei dialoghetti, dei canti di protesta, oltre a essere più viva, ha un particolare significato poiché rappresenta una scelta democratica di politica culturale. Con tale scelta programmatica i rappresentanti più responsabili del movimento giacobino si collegavano con le classi subalterne in rivolta nelle città e nelle campagne, con i gruppi che operavano sulle montagne dove le persecuzioni e le malversazioni li avevano imbrigantati, con gli artigiani e i contadini.
I giacobini con il dialetto instaurano un nuovo rapporto tra intellettuali e popolo, tra avanguardia politica e masse: le nuove proposte nascono da una vita culturale di base. Il dialetto, strumento di istruzione per il popolo (perché ad esso accessibile), serve per la comunicazione diretta con i proletari di città e campagna, per esporre ad essi la tematica politico-sociale: la condizione di sfruttati e perseguitati, la necessità della liberazione.
Del bisogno di usare il dialetto si rendeva ben conto, politicamente, Eleonora Fonseca Pimentel la quale sul Monitore napoletano (febbraio 1799) ringraziava un cittadino patriota il quale sul giornale del 15 de lo mese che chiove (febbraio) aveva pubblicato una civica arringa in dialetto napoletano. La Fonseca dichiarava che con una parte del popolo (la plebe) non esisteva possibilità di intesa perché non si aveva «con essa un linguaggio comune»; per questa mancanza di intesa la plebe diffidava dei patrioti (talvolta li vedeva come borghesi, come suoi nemici). Perciò, concludeva la Fonseca «ogni buon cittadino, cui per la comunione del patrio linguaggio, si rende facile il parlarle e 'l commischiarsi fra lei, compie con ciò opera non solo utile, ma doverosa».
Anche nella cultura i rivoluzionari dissacravano gli idoli, rompevano le scale di valori tipiche del senso comune culturale classico-moderato, cattolico, aristocratico, il dialetto era una scelta fatta per rigettare la vecchia cultura iniziatico-accademica ed era, soprattutto, funzionale ai progetti di istruzione pubblica rivoluzionaria. Esso ha toni razionali e severi o satirici, è rivolto a moltitudini di oppressi e indugia nel racconto di fatti scandalosi che corrono sulla bocca di tutti.
L'inno Su patriottu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu (1758-1839) di Ozieri fu cantato la prima volta nella sollevazione sarda del 1796: pubblicato in Corsica, giunse poi clandestinamente in Sardegna. Il poeta illumina il popolo e lo esorta a muovere contro i feudatari e i «tirannos minores», ponendosi dal punto di vista del popolo-vittima: «estirpare sos abusos», «gherra, gherra a s'egoismu», «gherra a sa prepotenzia» e a «sos oppressores». Il Mannu interpreta lo stato degli oppressi e di tutta la patria sarda, illumina le ragioni della protesta (squilibri tra ricchezza dei feudatari e miseria generale, ingiustizia sostanziale), tocca il sentimento popolare, lo indirizza verso l'azione.
Questa «marsigliese sarda» giacobina fu scritta nella lingua comune agli oppressi della nazione sarda diventata schiava dei feudatari e dei loro ufficiali di giustizia; essa fa risaltare le usurpazioni delle terre comuni e dei villaggi da parte di poche famiglie di prepotenti, gli smisurati tributi che servono a mantenere il fasto, le amanti, le carrozze, i vizi dei baroni, le portantine e il lusso delle baronesse. Il contadino vassallo lavora tutto il giorno cibandosi meno del cane del padrone, i baroni s'imparentano con le famiglie ricche locali, rapinano oro, argento, tutte le risorse e perfino i più importanti documenti.
L'inno del Mannu conclude esortando a cogliere il momento favorevole e a ribellarsi. In esso si riflette il grande movimento isolano antifeudale e antipiemontese e i motivi della rivolta saranno sentiti come propri dai sardi anche nelle altre rivolte dell'Ottocento: così, ad esempio, nella rivolta nuorese dell'aprile del 1868 quando al grido di «a su connottu» («al conosciuto») contadini e pastori nuoresi si richiamavano alle usanze conosciute e improvvisamente sovvertite ma anche al concetto di «eredità e quasi di bene di famiglia».
Il radicalismo giacobino ha una potente espressione in Il Te Deum dei Calabresi (1797-1800) di Gian Lorenzo Cardone (1743-1813) di Bella in Basilicata. In Calabria la costituzione delle municipalità repubblicane fu spesso accompagnata dal canto del Te Deum e forse all'inutilità di tale prassi (considerato che la Provvidenza non vede e non sente: «Mó nun bidi mó nun senti?! | Vuoi durmiri eternamenti?!») si richiama ironicamente il Cardone che scrisse la seconda parte dell'inno dopo la caduta della Repubblica partenopea.
Cardone svuota il concetto di Dio provvidente e avente cura delle cose create, mette in evidenza il prevalere delle ingiustizie e l'innalzamento improvviso di uomini e donne conosciuti come viziosi e corrotti. Nel suo canto predominano l'ironia nei riguardi della divinità e il disprezzo della tirannide borbonica:
  1. Chi si merita na funi,
  2. fierru, focu, lampu e truonu,
  3. Tu 'ngrannisci e Tui pirduni,
  4. Granni Deu […]
  5. Laudamu, laudamu lu Deu d'Abramu!
Nella seconda parte (1800) sono oggetto di satira l'onnipotenza e l'imperscrutabilità divine nonostante le quali hanno trionfato i sovrani disumani, Acton, il cardinale Ruffo, ministri di polizia, ladroni, traditori, prostitute: gli eletti sono «li mostri | na scrufazza ca nn'accidi, | Lazzaruni e Santafidi!» e quanti altri per i quali sarebbero necessari «...lu boia | cu nu fierru e na capizza!»); l'uomo giusto «campa affrittu e arruinatu», chi pratica la giustizia invece di andare avanti «va arreti».
Il canto di Cardone rappresenta la critica ideologica più avanzata e radicale al potere borbonico nei suoi connubi con altri poteri disumani, falsamente religiosi, soprattutto all'unione di trono e altare. Il moto rivoluzionario era stato abbandonato dalla borghesia con base terriera, la reazione sanfedista aveva trionfato ed esaltava con i lazzaroni la forca e il boia.
In Piemonte il torinese Edoardo Calvo (1773-1804) fin dai primi scritti scrolla da sé ogni impalcatura colta e va alla ricerca di modi discorsivi e quasi trascurati. Nei versi sulla vita di campagna esalta la semplicità e la santità della vita contadina e rifiuta i modi di quella cittadina. I versi sono recitati nella loro discorsività quasi sciatta ma il Calvo non bada agli autonomi valori letterari; eppure dalla densità degli oggetti ammucchiati nella descrizione delle attività della vita contadina emergono uno spessore e una concretezza che derivano da una visione reale.
Nel Passaport d'ij aristocrat, che fu il primo suo scritto in dialetto, Calvo esorta i patrioti repubblicani a liberarsi dai tiranni, ricorda ad essi in quali modi gli aristocratici (quegli stessi che, un secolo dopo, con letteraria nostalgia di decadente sopravvissuto Guido Gozzano esalterà col pianto estetico alla gola) hanno sfruttato e massacrato le classi dei poveri e dei lavoratori. Nei suoi ottonari Calvo collega il motivo dell'oppressione con quello della rivendicazione della libertà e della giustizia violenta: «Pendie tuit attacà un trav». Più tardi egli canterà nelle favole le speranze dei patrioti, le loro delusioni per il malgoverno dei Francesi.
Il quadro della cultura italiana di fine Settecento risulta incompleto se privo della specificità espressiva giacobina dialettale e rivoluzionaria che rappresenta un momento breve ed essenziale di democrazia popolare; momento eccezionale ed eroico in un paese che è stato sempre mantenuto nell'immobilismo e nella divisione dall'egemonia del predio e del guadagno esercitata dall'aristocrazia e dalla borghesia.
Il giacobinismo di fine Settecento, presentato dalla cultura ufficiale come una confusa proposta estremistica, settaria e avventuristica, non ebbe seguito per il frazionamento politico, per la profondità dello schieramento reazionario, per i limiti di conservazione che forze — le quali dovevano essere oggettivamente alleate — posero allo sbocco rivoluzionario. La critica avversa al movimento politico-culturale giacobino ha salvato, in sostanza, la facciata della vecchia letteratura e convalidate irrazionali preclusioni e paure.
Il Risorgimento italiano e la sua cultura non furono il superamento del 1799; nella vicenda risorgimentale sono i segni e le prove delle mancate soluzioni: le sopravvivenze politiche moderate, le conciliazioni e i trasformismi anche culturali. Dopo l'Unità tali residui patogeni si riveleranno ancora, in Italia, come elementi di mistificazione, anche se le altre nazioni avranno segnato una via di sviluppo moderno; in ogni caso in Italia giacobinismo e rivoluzione culturale saranno i bersagli di governi trasformisti, di regimi autoritari, della cultura accademica e di ogni pedagogia e dialettica ufficiale.
Gli avvenimenti rivoluzionari danno luogo a una letteratura dialettale o in lingua che esprime l'adesione alla causa giacobina o a quella controrivoluzionaria. Prima della venuta dei Francesi e della Repubblica partenopea a Napoli fu composto un Inno a S. Gennaro (1794) in cui si lamenta la povertà popolare:
  1. In due regni così ricchi
  2. dove piove ognor la manna
  3. ci ha ridotti la Tirannia
  4. a soffrir la povertà […]
  5. Si vorrebbe far la guerra
  6. con il popolo francese
  7. che ci libera a sue spese
Nel 1794 in versi anonimi bergamaschi si ricorda a Venezia che se non si osservano i patti ogni suddito può diventare libero come in Francia:
  1. A Venezia gh'è i Paroni
  2. perché nu li avemo fati […]
  3. No ve pare? No ve piase?
  4. Gh'è i Francesi, recordeve.
Anche a Brescia si canta (1797) contro la tirannide di Venezia:
  1. E i diritti conquistati
  2. or dal Popolo sovrano
  3. sosterrem colla spada alla mano,
  4. col coraggio d'un libero cuor.
Nella stessa Venezia (1797) è condannato il governo oligarchico:
  1. La politica severa
  2. d'un antico reo dominio,
  3. andò alfine in esterminio,
  4. e si deve festeggiar.
A Genova si cantò L'indegno aristocratico per celebrare l'albero della libertà:
  1. Or che innalzato è l'albero,
  2. s'abbassino i tiranni,
  3. da suoi superbi scanni
  4. scenda la nobiltà […]
  5. Già reso uguale e libero,
  6. ma suddito alla legge,
  7. è il popolo che regge:
  8. sovrano ei sol sarà.
Molto diffusi furono nell'Italia meridionale i canti antigiacobini esaltanti il cardinale Ruffo («lo papa santu»), l'impiccagione di Eleonora Fonseca Pimentel:
  1. A lu suono le campane
  2. viva, viva li pupulane!
  3. A lu suono de li violini,
  4. sempre morte a' Giacobini!;

  5. [...]
  6. È venuto lo papa santu,
  7. ch'ha portato li cannoncini
  8. p'ammazzà li giacobini […]
  9. È venuto lo francese
  10. co no mazzo de' carte 'mmano:
  11. liberté, égalité, fraternité,
  12. tu rubbi a me, io rubbo a tte;

  13. [...]
  14. 'A signora donna Dianòra
  15. che cantava 'ncoppa 'o triato,
  16. mo' abballa 'mmiez'o mercato […]
  17. Viva 'a forca 'e Mastu Donato
  18. Sant'Antonio sia priato.
La presenza francese in Italia ha profonde ripercussioni nella modificazione delle strutture sociali, nei rapporti fra le classi, nella creazione — attraverso i quadri amministrativi — di nuovi ceti sociali, nell'abolizione dei feudi, del patrimonio ecclesiastico. L'eversione dei feudi in Italia meridionale (1806) abolisce la vecchia e nuova aristocrazia terriera e crea una borghesia agraria che si sostituisce alla nobiltà acquistandone i possedimenti. La fondamentale beneficiaria dei mutamenti fu la borghesia, il popolo proletario rimase nella condizione di affamato di terra e di pane, i rapporti agrari rimasero quali erano.
Nella cultura correnti diverse si incrociano, italiane ed europee, vecchio e nuovo coesistono, idee moderne sono rivestite di espressioni antiquate. Gli esuli napoletani (Francesco Lomonaco, Francesco Saverio Salfi) sono intermediari importanti per la formazione di un ideale unitario italiano.
Salfi (1759-1832) cosentino visse a Napoli a contatto con gli illuministi e affrontò il problema del rapporto fra Stato e Chiesa (difesa dello Stato, ritorno alla religione apostolica) in un quadro di cultura intesa come capacità di intervenire nella realtà, di dare ordine alle idee, di creare principi razionali. Dopo la Rivoluzione francese l'abate Salfi diventò giacobino partecipando alla lotta politica anche con il suo teatro di ispirazione alfieriana: così in Corradino (1790), Virginia bresciana (1797), Pausania (1801).
Segretario del Governo provvisorio della Repubblica napoletana scampò al patibolo e fu esule nella Cisalpina e in Francia, a contatto con altri esuli di formazione illuministica e massonica insieme coi quali svolse attività clandestina. Dopo Marengo torna in Italia, insegna al ginnasio di Brera, nel 1814 è a Napoli, l'anno seguente a Parigi consigliere di Murat. Dalla Francia segue le vicende italiane, delinea il programma di una federazione italiana, nel 1831 prepara un movimento insurrezionale in Italia e scrive con Filippo Buonarroti un programma in cui è auspicato il sorgere dell'Italia «Repubblica una e indivisibile dalle Alpi al mare».
Illuminista, sensista, giacobino, patriota, Salfi colloca Telesio all'inizio della tradizione italiana di libero pensiero e vede Galilei come il grande attore del naturalismo progressista. Collaborò al Termometro, progettò una riforma dell'insegnamento medio, scrisse sul terremoto del 1783, continuò la Histoire littéraire d'Italie di Pierre-Louis Ginguené.
Vincenzo Cuoco1 (1770-1823) di Civitacampomarano nel Molise, esule scampato alla caduta della Repubblica napoletana, critica dal punto di vista della concretezza politica e dei suoi studi intorno a Machiavelli e Vico i rivoluzionari francesi e giacobini. Nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1801) Cuoco, studioso di diritto ed economia, contestava ai rivoluzionari la fiducia nelle teorie derivate «dalla più astrusa metafisica», la scarsa conoscenza delle condizioni del popolo, l'adesione dei giacobini a un modello straniero.
Cuoco indicava anche il distacco tra la minoranza rivoluzionaria e le esigenze delle plebi rimaste passive. Non già che Cuoco vedesse l'insufficienza del programma giacobino da cui era assente la riforma agraria (ed era naturale perché i capi giacobini moderati miravano a difendere la proprietà) ma perché il suo punto di vista era quello del moderato, legalista, riformista e gradualista borghese. Infatti lo storico propone una accorta educazione della coscienza popolare in senso nazionale, armonizzata con le tappe del rinnovamento politico.
Saranno queste le idee liberali della borghesia moderata, cattolica, fautrice di una nazione italiana avente la tradizione del primato morale e culturale e non necessitata a imitare le idee provenienti dalla Francia. I motivi nazionali rimasero anche nel Platone in Italia (1805), romanzo archeologico disorganico il cui tema è la formazione di una coscienza nazionale.



1 Vincenzo Cuoco
A Napoli, dove si era stabilito nel 1787, VINCENZO CUOCO studiò giurisprudenza, ma si interessò anche di problemi economici e filosofici leggendo gli illuministi francesi, stringendo amicizia con quelli napoletani e meditando sulle opere di Machiavelli e Vico.
Fautore di un cauto liberalismo, dopo la caduta della Repubblica partenopea fu incarcerato e condannato all'esilio; dopo Marengo si stabilì a Milano, dove contribuì a diffondere la conoscenza della filosofia vichiana e diresse (1804-06) il «Giornale italiano», animato da intenti educativi e civili. Qui pubblicò il Saggio storico (che, scritto in uno stile conciso ed essenziale, presentava in appendice le Lettere a Vincenzo Russo in cui Cuoco esponeva le sue riserve sul programma dei giacobini meridionali) e il Platone in Italia.
Tornato a Napoli nel 1806, continuò l'attività giornalistica ed ebbe incarichi da Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat (fra l'altro redasse, nel 1809, un Progetto di decreto per l'ordinamento della pubblica istruzione in cui espose le sue idee sul problema dell'educazione, ma che fu respinto perché giudicato troppo dispendioso). Gli ultimi anni, dopo il ritorno dei Borboni che naturalmente lo privarono degli uffici, furono rattristati da una grave malattia mentale.