Capitolo

21

Dalla Resistenza ai nostri giorni


PREMIO ANTONIO PIROMALLI
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21 - § 5

La neoavanguardia e il «Gruppo 63»


Il neorealismo ormai consunto è attaccato anche dalla neoavanguardia degli anni Sessanta, un movimento che nasce dallo sfaldamento delle certezze del dopoguerra, da un disagio generale che percorre l'Italia industrializzata (di cui si ha la fenomenizzazione letteraria nei romanzi dell'industria scritti da Giovanni Testori, Lucio Mastronardi, Goffredo Parise, Ottiero Ottieri, Paolo Volponi).
In una realtà negativa, caos assoluto, la neoavanguardia vede la poesia come «mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato». La tesi della nuova scuola è un nuovo concetto del rapporto ideologia-linguaggio che dà luogo allo sperimentalismo ad oltranza nella lirica e nella narrativa. Non poche esperienze erano state stimolate dal «Verri» (rivista milanese fondata nel 1956 da Luciano Anceschi) dove si radunarono i poeti detti «novissimi» perché entrati a far parte dell'antologia I novissimi (1961) a cura di Alfredo Giuliani: Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Antonio Porta e Giuliani.
Nel 1963 una cinquantina di scrittori e critici in un convegno a Palermo creano il «Gruppo 63» (tra i quali sono Umberto Eco, Renato Barilli, Francesco Leonetti, Giancarlo Marmori, Lamberto Pignotti) che afferma: il carattere provocatorio della nuova letteratura, la sua protesta contro l'assetto della realtà (immenso pastiche indistinto privo di valore: dai bombardamenti al napalm al papato di Giovanni XXIII) e contro il realismo, il carattere dell'opera moderna come «opera aperta», la disgregazione dei linguaggi, l'uso del plurilinguismo (linguaggi da diverse aree, discipline, livelli).
La neoavanguardia voleva contestare il carattere ideologico della comunicazione linguistica e della struttura economica e sociale da cui la comunicazione deriva. Edoardo Sanguineti (1930) genovese, l'organizzatore teorico della neoavanguardia, in Ideologia e linguaggio (1963) e in Avanguardia, società, impegno (1966) riconosce la mercificazione della comunicazione linguistica e dell'opera d'arte perché esse dipendono dal mercato capitalistico. L'arte dell'avanguardia vive brevemente, rompendo col suo grido la mistificazione capitalistica, finché — oggetto acquistato — entra nel momento cinico, nel museo delle cose che sostengono l'ordine borghese. Come poeta di neoavanguardia Sanguineti scompone la collocazione delle parole tenute legate dai segni convenzionali, le allinea in modo mistilingue (latino medievale, greco, neologismi scientifici, cifre alfabetiche, numeriche etc. in Laborintus, 1956) che vorrebbe esprimere il caos schizofrenico, la nevrosi dissociativa del tempo in cui viviamo. Lo sconvolgimento linguistico é, perciò, una omologia strutturale della realtà che sconvolge la coscienza, come era avvenuto nelle rivoluzioni precedenti che avevano fatto prendere coscienza di altri momenti del reale (nel futurismo, nel surrealismo). In Erotopaegnia (1960), Triperuno (1964), Catamerone (1974) Sanguineti getta i suoi blocchi esemplari di scomposizioni che fluiscono nei loro elementi disgregati posti in relazione solo in modo psichico-onirico. Già dal 1951 Sanguineti scomponeva e ricreava «finimondi liquido-sintattici» e anche nel romanzo e nel teatro disarticola strutture e lingua tradizionali per esprimere una realtà più complessa nel suo rapporto con l'onirico, il ludico (Capriccio italiano, 1963; Giuoco dell'oca, 1967; Giuoco del Satyricon, 1970).
Fra gli altri componenti del «Gruppo 63» quasi tutti accomunati nella concezione di un linguaggio, quello normale, «falso e falsificante» e perciò da «sventrare» per fare prendere coscienza della sua ideologizzazione, Balestrini salta (lasciando spazi bianchi) parole o crea collages; Porta fa l'inventario di contenuti assurdi e sadico-infernali senza speranza di liberazione; Giuliani con lo schizofrenismo del reale rimanda a un altro luogo da cui tutto nasce. Collage, leggere saltando una riga di ogni testo (come fa Emilio Isgrò), rappresentazioni grafico-poetiche bizzarre anche con l'ausilio delle forbici o dell'elettronica diventano mezzi per significare lo stravolgimento dei modi di comunicazione.
Soltanto Elio Pagliarani (1927) di Viserba di Rimini intende ricomporre la riconosciuta frantumazione psicologica rappresentando la periferia alienante di Milano, l'infezione che dà il danaro (La ragazza Carla, 1960; Lezioni di fisica, 1964; Fecaloro, 1968):
E' nostro questo cielo d'acciaio che non finge
Eden e non concede smarrimenti,
è nostro ed è morale il cielo
che non promette scampo dalla terra,
proprio perché sulla terra non c'è
scampo da noi nella vita.
Tuttavia un movimento che ipotizza di muovere la realtà rimovendo il linguaggio non può fare che del movimento letterario, rinnovare l'aria come altre scuole generazionali avevano fatto. Né più plausibile era la considerazione (più che tale non era, allora) che faceva del mondo un universo mostruoso, asserito come tale aprioristicamente e senza che la «letteratura» nella sua lotta cercasse più consistenti alleati. Essa diceva di attingere la «realtà » e le strutture economiche e sociali ma le attingeva come quei filosofi che nel chiuso di una stanza con la dialettica idealistica creano immaginari sistemi e inventano immaginarie realtà.
Noi non dimenticheremo che la neoavanguardia ha dissolto gli equivoci dell'ultimo neorealismo ma non possiamo dimenticare che gli esiti metaforici, simbolici, inventivi della neoavanguardia sono stati razionalmente incomprensibili, anarchici, non immissibili in una creazione storica. Certamente esisteva tra il 1950 e il '60 una gravissima crisi anche di linguaggio, anzi della poesia stessa e del suo significato in un mondo sconvolto dall'industria ma la neoavanguardia piuttosto che rivolgersi contro la cultura di dominazione, da individuare o individuata che fosse stata, nel suo rapporto con i meccanismi della struttura economica, aveva tempo da perdere nell'esemplificare flussi schizofrenici. Priva di alleati anche fra le culture subalterne che vedevano nell'avanguardia un noioso «ludus» sovrastrutturale stranamente mimetico, omologo, della schizofrenia borghese, l'avanguardia chiuse i suoi giorni quando le grandi lotte del '68 imposero una qualità d'impegno ben diverso dal letterario, quello politico e una geniale forma di potere, quella della fantasia.
La crisi della poesia, del resto, è testimoniata da altri poeti come Nelo Risi, Attilio Bertolucci, Aldo Borlenghi, Sandro Penna, Vittorio Bodini, Maria Luisa Spaziani, Giorgio Caproni, Bartolo Cattafi, Giovanni Giudici, Roberto Roversi (alcuni dei quali vedono i «dadi truccati» della situazione, il linguaggio come menzogna) e soprattutto da Andrea Zanzotto e Franco Fortini1.
Quest'ultimo (il cui vero nome è Franco Lattes, Firenze 1917 - Milano 1994) da una trentina di anni è stato una guida ideologica e morale verso l'impegno civile e politico. Nella ricerca di autenticità Fortini è stato un punto di riferimento contro ogni tipo di conformismo e i suoi interventi sono anche serviti a correggere errori della sinistra culturale. La funzione storica si intreccia fittamente con la voce dell'artista, portavoce dei tempi e del suo dolore interiore, degli sdegni, della satira.
Lontano dal neorealismo per un invischiamento in echi di aristocraticismi ermetici ben confacenti alla generalità del parlare in modo apodittico e apostolico (una religiosità ambigua è sempre nel razionalista Fortini) il poeta incita all'impegno, patisce le delusioni dei miti del socialismo, si accende liricamente ma nei suoi versi (Foglio di via, 1946; Poesia ed errore, 1959; Questo muro, 1973) c'è un manierismo che stona quando il poeta si fa carico di sentimenti e ragioni universali. Coraggio e verità, invece, spiccano in Fortini lucido nel denunciare l'ideologizzazione del riformismo da parte degli uomini di cultura di sinistra («Il riformismo, nella cultura, è contraddizione in termini, cattiva coscienza, vendita di primogenitura, rinuncia alla tensione...»). Ecco perché non esistono più nel nostro paese una cultura e una letteratura d'opposizione, per non dire rivoluzionarie, ma solo le amministrazioni ordinarie degli impegni e delle coscienze. In queste condizioni è inutile e dannoso predicare la generica serietà del pensiero e del disinteresse.
Ogni appello al «valore» va denunciato come ambiguo. È chiaro che l'intransigenza, l'onestà personale, la schiettezza sono nulla se non sono per qualcosa e contro qualcosa, per qualcuno e contro qualcuno [...]. Non esistono lavori ben fatti se non si sa a che cosa servono»), la necessità di opporsi alle istituzioni culturali di massa in quanto corruttrici, l'integrazione della problematica culturale nell'ideologia della classe dominante (Verifica dei poteri, 1965; Profezie e realtà del nostro secolo, 1965).

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