Capitolo

20

L'età del Fascismo


PREMIO ANTONIO PIROMALLI
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20 - § 4

Le riviste letterarie. La poesia nuova e Ruggero Jacobbi: Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo


Le riviste letterarie furono utili, durante il fascismo, come luoghi di raccolta per approfondimenti di linguaggio, di stile, per aperture consentite verso le letterature straniere, per qualche sperimentalismo con licenza dei superiori.
Funzione di «obiettore di coscienza» ebbe, come scrisse lo stesso primo direttore Alberto Carocci, la fiorentina «Solaria» (1926-36), incubatrice dell'ermetismo, del racconto di memoria, della critica stilistica di Gianfranco Contini. La nuova poesia e la nuova narrativa degli anni Trenta fecero in essa significative prove ma vi ebbero i primi riconoscimenti anche Proust (già fatto conoscere da Giacomo Debenedetti sul «Baretti»), Joyce, Kafka.
Da «Solaria» nacquero a Firenze «Letteratura» (dal 1937) diretta da Alessandro Bonsanti, moderna e raffinata (ad essa collaborarono Montale, Saba, Solmi, Luzi, Landolfi, Contini, P. Bigongiari etc.) e «La riforma letteraria» (1936-39) diretta da Carocci e Giacomo Noventa, aperta alla «fronda» fascista e a cui collaborarono Giuseppe Bottai, Franco Fortini, Giorgio Spini, Raffaello Ramat, Geno Pampaloni etc.
Fin da «Primo tempo» (1922-23), rivista torinese, Giacomo Debenedetti che la dirigeva studiava Saba con critica psicanalitica, Sergio Solmi sottolineava il travaglio di Montale e tutti i collaboratori usavano le più moderne esperienze critiche.
Anche la rivista cattolica fiorentina «Frontespizio» (1929-40), che ebbe tra i direttori Bargellini e Giuliotti, fu attraversata (in forma mistico-religiosa) dalla poesia pura e dai suoi critici (Lisi, Betocchi, Bo, Fallacara, Fasolo); diciamo attraversata perché i giovani evasero dall'atmosfera chiusa e conservatrice verso «Campo di Marte».
Fu questa nella sua breve durata (1938-39, diretta da Enrico Vallecchi) una testimonianza bruciante, individuale, di quella solitudine e di quello scacco esistenziale che alimentano la poesia ermetica (Alfonso Gatto, Vasco Pratolini, Ruggero Jacobbi, Elio Vittorini, Mario Luzi, Carlo Bo, Eugenio Montale, Romano Bilenchi etc. figurano tra i collaboratori).
Più ricca di pensiero e di aperture, di concrete insofferenze verso il regime, fu «Corrente» (1938-39) diretta a Milano da Ernesto Treccani, ricca di problemi figurativi, filosofici, alimentata dalla collaborazione dì Raffaele De Grada jr., Piero Bigongiari, Carlo Cassola, Luigi Bartolini, Antonio Banfi, Luciano Anceschi, Remo Cantoni etc.
Verso il surrealismo europeo si apri «Prospettive» (1937-43), diretta a Roma da Malaparte, che fece conoscere Breton, Lorca, Eluard, Joyce.
Infine ricordiamo «Primato» (1940-43), diretta a Roma da Giorgio Vecchietti e Giuseppe Bottai, sorta per conquistare intellettuali non fascisti o antifascisti, sicché tra i collaboratori si incontrano Mario Alicata, Carlo Muscetta, Giaime Pintor, Vitaliano Brancati, Cesare Pavese, Vasco Pratolini, Alfonso Gatto, Guido Piovene etc.
La lirica nuova come linguaggio e come temi si differenzia da quella che si è sviluppata intorno all'esperienza e ai fermenti morali della «Voce». Questa lirica, che ha origine con i versi di Ungaretti scritti durante la guerra, si fonda sul concetto di indefinibilità e incomunicabilità psicologica della poesia, sullo scavo formale in modo da rendere la parola più pura possibile e perciò capace (al di là dell'oratoria, del sentimento pratico) di far intendere le analogie che sono nella realtà.
La parola-poesia diventa valore essenziale e assoluto che, quando è veramente tale, fa vedere il mondo dell'oggettività come informe, trito, privo di nessi, doloroso, cieco con qualche barlume, luogo di esilio, di assenza, di peccato, di scacco e delusione. La vita è una sorta di inferno o di morte-che-si-vive e che si sconta vivendola. Motivi baudelariani e del decadentismo europeo, arpeggi religiosi o mistici o quasi stilnovistici, musicalità liquido-profonde fanno rifluire il poeta verso paesaggi calcinati, bianchi, aspri, celesti che diventano simboli di pena per l'essere che si contorce in una realtà necessitata e impura.
Parola e letteratura sono le vere realtà che per l'intuizione soggettiva dell'uomo in quanto «poeta» scoprono l'aldilà, la poesia. L'approdo poetico è la grazia concessa, la sola illusione per l'uomo sacrificato in una torre d'avorio e assente al fluire della vita inteso come condanna. Le metafore e le analogie tendenti in molti casi all'oscurità — poiché la poesia è intuizione, non concetto né comunicazione —, a vortici, spirali di oscurità, lo stile raffinato e ricco di simboli fecero chiamare ermetica, da parte di critici pigri e accademici, questa lirica diventata, invece, densa e limpida soprattutto fra il 1930 e il '40. Con l'assunzione della forma e della parola a realtà i poeti intesero protestare contro il flusso disorganico della vita, dei suoi modi empirici, civili, sociali, politici; ma il loro disimpegno fu ambiguo perché, diversamente, ad esempio dai surrealisti, nulla essi intendevano modificare e il loro limbo costituì un parcheggio nell'ineffabile, nei «pomari», negli «orti di limoni», in un mondo di pena individuale.
Il Novecento letterario come invenzione estrema che va dal simbolismo al surrealismo, agli ermetici ha la sua personificazione in Ruggero Jacobbi, nato a Venezia nel 1920 e morto a Roma nel 1981. Questa vocazione era già chiara in lui quando, diciannovenne, collaborò a «Campo di Marte». I suoi compagni di università (Rosario Assunto, Giacinto Spagnoletti) concordarono nel ritenere fin d'allora un genio Jacobbi, esperto di letterature straniere, estetica, teatro, arti figurative, lirica, critica. Il più attento periegeta del primo Novecento, Jacobbi, nel 1946 lasciava l'Italia per il Brasile come regista della compagnia teatrale di Diana Torrieri; rimase in Brasile fino al 1960 e là fu un rinnovatore della cultura teatrale, cinematografica, poetica. Campana, seguito da Arturo Onofri, è per Jacobbi il capostipite della nuova poesia lirica che si svolgerà sotto i segni del surrealismo e dell'ermetismo libertari e antiaccademici. La "veemenza dei rapporti irrazionali" di Campana è l'emblema della nuova poesia novecentesca.
Jacobbi ebbe notevolissima cultura letteraria ma per lui la base profonda e interiore della creazione è offerta dalla vita, dal raggiungimento della vitalità e della melodia psichica "nell'eliminazione di ogni regola rigida". Perciò fu contro la letteratura astratta, purista, imitatrice e pose in primo piano l'immaginazione, l'invenzione, l'inesauribile surrealismo di Breton che per lui ebbero vita soprattutto nel mondo del Brasile, teatro di sconfinatezza, di disordine concretamente attivo, di realtà irraggiungibili, di realizzazioni che plasmano o sono plasmate dalla poesia. Questa tensione si ritrova in centinaia di studi sulla letteratura e sul teatro, in dieci volumi inediti di poesie, nell'incompiuta Avventura del Novecento (postuma, 1984), nei saggi su Campana, sulla letteratura, americana, sulla poesia brasiliana del Novecento, sul teatro italiano etc., studi preziosi per l'impegno, l'intelligenza, le scelte che indicano in Jacobbi il maggiore studioso del Novecento italiano anche nei suoi rapporti con la cultura mondiale.
Indefinibile è per Ungaretti la poesia, scaturente da una «esperienza strettamente personale» e portante il segno dell'individualità. Giuseppe Ungaretti1 (1888-1970) nacque da famiglia lucchese ad Alessandria d'Egitto dove il padre si era recato per i lavori del canale di Suez. Studiò nelle scuole francesi di Alessandria e poi a Parigi dove conobbe Modigliani, Apollinaire e il pittore Léger. In Italia conobbe Mussolini, fu combattente volontario come soldato semplice, nel 1916 pubblicò con prefazione di Mussolini il Porto sepolto. Seguì Allegria di naufragi (1919 e, col titolo Allegria nel 1933).
Nel 1920 si trasferì a Roma, aderì al fascismo, ritornò alla fede cattolica. In Sentimento del tempo (1933) dai versi franti e rotti della visione sgomenta delle prime raccolte passa ai metri tradizionali della nostra lirica (endecasillabo, settenario) filtrati attraverso il simbolismo di Mallarmé e il mondo barocco i cui poeti è venuto traducendo. Nel 1936 si recò come insegnante di letteratura italiana all'università di S. Paulo, in Brasile, dove perdette il figlio Antonietto. Tornato in Italia (1942) insegnò all'università di Roma fino al 1958. Ungaretti si trovò spesso nella sua vita nei crocevia degli incontri culturali sicché fin dal Porto Sepolto (un antico porto sommerso di Alessandria) le esperienze dell'avanguardia parigina non solamente letteraria, di Campana e di Onofri lo portano a un rinnovamento linguistico e metrico. Da allora nasce la lirica in cui il verso è frammentato, il linguaggio scarno, la parola sillabata per esprimere la condizione di fragilità dell'uomo, la solitudine, l'inferno della guerra, la nebbia che circonda l'esistenza e l'illuminazione poetica che la può disperdere:
Ungaretti
uomo di pena
ti basta un'illusione
per farti coraggio;

[...]
poesia
è il mondo l'umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento.
L'impossibilità di esistere nel tempo storico induce il poeta a rivolgersi alla Pietà:
Sono un uomo ferito
e me ne vorrei andare
e finalmente giungere,
Pietà, dove si ascolta
l'uomo che è solo con sé […]
nei vivi la strada dei defunti,
siamo noi la fiumana d'ombre…
In Il dolore (1947), sono le liriche per la morte del figlio:
Ora dov'è, dov'è l'ingenua voce
che in corsa risuonando per le stanze
sollevava dai crucci un uomo stanco?…
La terra l'ha disfatta, la protegge
un passato di favola.
Il risultato dello scavo, della purezza della parola diventa in Ungaretti l'espressione lirica di un sentimento che anche quando è di strazio si rivela poeticamente autentico, aderente allo sgomento di una società che ha come rifugio l'esistenziale.
Estremamente lontano dal simbolismo e dai modi analogici di questa lirica è il triestino Umberto Saba2 (1883-1957; si chiamava Poli, scelse il cognome della madre ebrea poiché il padre lo aveva abbandonato). Egli dirà: «Noi non amiamo l'ermetismo, perché sappiamo che esso nasconde un processo (psicologico) involutivo anziché evolutivo e il mondo ha più bisogno di chiarezza che di oscurità» (il contrario di ciò che scriverà Carlo Bo nel 1938 in Letteratura come vita: «la chiarezza non è che un'oscurità travestita, non offre cioè il senso della ricerca, la possibilità di vita»). Le sue esperienze culturali principali furono quelle, non facili, con i vociani a Firenze, lo studio di Nietzsche (il persuasore, non il superumano) e di Freud. Nel 1921 radunava nel Canzoniere (edito dalla sua stessa libreria antiquaria) le raccolte pubblicate; dal 1945 usciranno altre edizioni del Canzoniere. Traduzione ottocentesca e metrica tradizionale caratterizzano le poesie di Saba il quale adopera la chiarezza lirica per esprimere l'amore verso Trieste, il desiderio di comunicare con altri uomini, di esprimere una vitalità cordiale,
di vivere la vita
di tutti,
d'essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.
La sua chiarezza e limpidità (non dolci ma, anzi, aspre) lo fecero definire poeta prosastico e autobiografico dalla critica fra le due guerre; ma Saba compiva uno scavo profondo interiore per mezzo della psicanalisi che gli consentiva di giungere alla densità lirica, alle oscure regioni del dolore che vede, da mitteleuropeo di Trieste, diffuso dovunque:
perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
La chiarezza di Saba è, cioè, penetrazione anche in ciò che è sentimento oscuro (ma senza illusioni di rinverginamenti e di purificazioni) ed è anche assai diversa da quella di Vincenzo Cardarelli (pseudonimo di Nazareno Caldarelli di Tarquinia, 1887-1959) intesa come ritorno alla tradizione in funzione antivociana, antisimbolista, antipascoliana, in opposizione, cioè, a tutto ciò che era schiarimento e rinnovamento di arte, di espressione. Saba, che fu civilmente e politicamente impegnato, ammirò come veri poeti Montale e Ungaretti.
La poetica di Eugenio Montale3 (1896-1981, genovese, studioso di musica, direttore a Firenze del gabinetto Vieusseux, premio Nobel per la poesia) è espressione di una realtà amara che ha il destino segnato ed è implacabilmente fissa nelle sue leggi. La Poesia più remota di Ossi di seppia (1925), Meriggiare è del 1916 e rivela inflessioni che derivano da Sbarbaro.
Il mondo di Montale è già definito nel linguaggio asciutto e ferrigno che dichiara i fenomeni oggettivi e le cose tagliando ogni ornamento oratorio, scenografico, idillico; con la tecnica freddamente enunciativa, inoltre, egli scrolla ogni indugio di letizia o di atteggiamento. Si avverte solo il dolore per la crudeltà dell'apparente destinazione delle cose: approdi, delta, sentieri che scoscendono, volti che si recidono dal passato, fluire delle forme sono gli esiti della sua poesia. La linea ligure poetica di Roccatagliata Ceccardi, Mario Novaro, Sbarbaro, Boine è il retroterra di Montale che, però, nel suo affiatamento con la cultura più illuministica ed europea, (Gobetti, Debenedetti, collaborazione a «Primo tempo»), affronta il problema dell'uomo nel suo tempo e ne coglie la consapevolezza dell'impotenza ad agire in un universo degradato. Dalla sfiducia nella realtà nasce un virile mondo interiore fondato sulla ragione e sulla consapevolezza del tragico destino individuale:
Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
[…] s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara, amara l'anima.
Solo barlumi, nebbie, segmenti del reale possiamo comprendere nel caos indifferente, nella labilità senza certezze che ci circonda:
Ahimè non mai due volte configura
il tempo in egual modo i grani!;

[...] Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina.
La linfa del tema dell'invariabilità, dell'inerzia, dell'immutabilità, dell'essenza in un universo distorto e violento («L'attimo che rovina l'opera lenta di mesi | giunge») domina la poesia di Montale:
Assente, come manchi in questa plaga
che ti presente e senza te consuma:
sei tornata e però tutto divaga
dal suo solco, dirupa, spare in bruma.
La tecnica della registrazione delle cose, delle immagini, dei nomi nasce dall'innumerabile infoltirsi di fatti, incomprensibile vicenda della storia e della vita:
La vita è questo scialo
di tristi fatti, vano
più che crudele.
In Ossi di seppia persiste un residuo psicologico nel tono epistolare o colloquiale, nel ricordo del mare (oasi al «male di vivere»), nelle Occasioni (1939) cadono anche le sfumature dell'arcano e dell'incantato. Il leopardismo di Montale, che negli Ossi è definito nell'antimetafisica e nella demitizzazione del posto dell'uomo nell'universo, adesso si rafforza nella negatività dell'esistenza e nella lettura dell'esistenziale attraverso il fenomeno. Le labili figure femminili sono perdute e assenti e non ricordano e non comunicano:
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera;
altro tempo frastorna
i tuoi pensieri;
Non recidere, forbice, quel volto
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre;
solo oggetti-amuleti, oggetti-talismani possono rivelare il sogno (la funicolare, «la moneta incassata nella lava»).
Nei «mottetti» del libro c'è il dolore per l'instabilità delle cose, per la catastrofe che incombe su tutto. La ricerca dei mezzi espressivi più sintetici e fulminati è coerente in Montale con le tonalità della pittura pura, con gli stacchi della cinematografia: la necessità di abolire gli sviluppi oratori della lirica induce Montale a disegnare a saetta, a folgorare l'attimo poetico della memoria, l'«occasione» diventa emblema, il fatto-guida che è illuminazione esistenziale. L'immagine della donna non ha evidenza fisica o di senso, giunge da un'altra regione attraverso una bufera come per portare salute:
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l'alte
nebulose: hai le penne lacerate
dai cicloni.
In La bufera ed altro (1956) il poeta (rimasto staccato, nella sua intellettualità un po' troppo consapevole di sé, dalla storia) incupisce la sua visione nell'antitesi tra l'emergenza storica e un'altra Emergenza, «enorme-presenza dei morti». In Satura (1971) e in Quaderno di quattro anni (1977) non c'è più alcuna speranza, la storia è negata in ogni sua qualità positiva. Montale cade in una filosofia dell'esistenza che non ha più nulla del pessimismo radicale e virile di Leopardi e il grande intellettuale di fronte ai fatti degli anni Settanta non riesce a concretare un atteggiamento diverso da quello del 1952 quando scriveva: «L'uomo, in quanto essere individuato, individuo empirico, è fatalmente isolato. La vita sociale è un'addizione, un aggregato, non una unità di individui. L'uomo che comunica è l'io trascendentale che è nascosto in noi e che riconosce se stesso negli altri [...] solo gli isolati parlano, solo gli isolati comunicano». Ma anche le immagini poetiche non riescono a scandire i tempi mutati.
Le Poesie (1938) in cui Salvatore Quasimodo4 (1907-68) di Modica raccolse una antologia di Acque e terre (1930), L'oboe sommerso (1932), Erato e Apollion, (1936), depurata dei temi più autobiografici, consegnano pienamente la fisionomia del poeta alla più ardente stagione ermetica. Entrato nel gruppo di «Solaria» Quasimodo, ricollegandosi a Ungaretti e Montale ma anche ai decadenti francesi che il sodalizio degli amici Luca Pignato, G. A. Di Giacomo (Vann'Antò) e Salvatore Pugliatti aveva fatto conoscere in Sicilia, riduce all'essenzialità la parola, pura, solitaria espressione di un mondo non toccato dal dolore. I miti dell'isola, dell'infanzia abitata da immagini assolute di purezza, da simboli viventi in un paesaggio metafisico scendono in forma di alta letteratura che ha il sentore dei lirici greci tradotti (1940) in modo genialmente moderno dal poeta. La parola ermetica è in Quasimodo una cosa sola con lo scavo esistenziale nel mondo perduto o dal quale egli si sente esiliato:
Aspro è l'esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d'armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire.
Ma l'esperienza della guerra e le fitte vicende del dopoguerra fanno precipitare l'habitus ermetico di Quasimodo, che si apre alla poesia civile con un canto più disteso in cui la tecnica analogica cede spesso al realismo in Giorno dopo giorno (1947), La vita non è sogno (1949), Il falso e vero verde (1953), Dare e avere (1966), qualche volta alla cronaca e al recupero esistenziale delle ragioni poetiche in una sostenuta eloquenza.
La lirica nuova apre la via alla poesia detta ermetica che si svolge in un clima di rapporti, di recuperi di cultura europea, di dibattiti a cui partecipano Carlo Bo, Oreste Macrì, Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi, Leone Traverso oltre, ovviamente, i nuovi poeti. Anche per questi poeti, che traggono origine da Ungaretti, Montale, Quasimodo, la letteratura corrisponde a impegno totale, a operare poetico come operare assoluto.
Leonardo Sinisgalli (1908) di Montemurro, pubblicitario della Pirelli e della Finmeccanica, antilirico; Alfonso Gatto (1909-76) di Salerno, autore di Morte ai paesi (1937); La forza degli occhi (1954), Osteria flegrea (1692), melodico; Carlo Betocchi (1899-1985) nato a Torino ma fiorentino di elezione, ricco di tensione morale in Realtà vince il sogno (1932), in Poesie (1955); Ugo Betti (1892-1953) di Camerino, autore di Uomo e donna (1937); Mario Luzi (1914) di Castello (Firenze), poeta in Avvento notturno (1940) e nel tenerissimo romanzo lirico Biografia a Ebe (1942) per una ragazza morta, guidato da una esigenza di ricerca di metafisica e autore di Onore del vero (1957), Su fondamenti invisibili (1971); Vittorio Sereni (1913-85) di Luino, pubblicitario della Pirelli e di settori di altre industrie, autore di Diario d'Algeria (1947), Gli strumenti umani (1965), ebbero tutti un piede nell'ermetismo ma si vennero svolgendo nel dopoguerra in diversi modi.
Ricordiamo, invece, due poeti assai rappresentativi della poesia ermetica perché autenticamente impegnati nella ricerca della poesia come verità sofferta: Luca Pignato (1892-1955) di Caltanissetta e Alba Florio (1913) di Scilla. Pignato vede la storia come un dramma religioso e la vita quale viaggio senza miti, in un mondo «ostile e irreparabile», «senza speranza di ritrovare qualcosa che si è smarrita». Il poeta vive come in un esilio, in una sorta di espiazione decadente, in un «soffrire impietrato». Pignato fu uomo di avanguardia, traduttore e divulgatore di Mallarmé, collaboratore del «Baretti», tra i pochissimi nel suo tempo che videro l'estetica di Croce come un fenomeno tardivo e inattuale, puntualizzato sull'interesse esclusivo per la forma.
Gobetti accolse tra le sue edizioni Pietre (1926), un libro di poesie e prose liriche di profonda autenticità:
La nostra vita non s'inventa sul foglio di carta, sotto il paralume verdognolo, ma giorno per giorno si crea sulle strade del mondo e nella passione dell'opera;

[...]
la vita brucia l'innocenza col fuoco delle passioni e l'uomo sospirerà sempre il paradiso perduto

[...]
Ma non ci sono serre per custodirti nell'innocenza delle favole
e la passione della vita arderà su di te, come su tutti i rosai l'estate
e il nostro amore non potrà darti che un sorso d'ombra.
Alba Florio in Oltremorte (1936), ma soprattutto in Troveremo il paese sconosciuto (1939), riveste di puro lirismo i dolenti postulati della vita come rassegnato dolore ed eterna sete d'amore:
Ogni creatura si ritrova sola […]
come l'animale innocente e sgozzato
i cui occhi nel freddo di morte
hanno il colore d'acqua chiara.
Ma l'elemento precipuo nella Florio è quello drammatico, il canto per la perduta presenza umana:
Sei più povero delle pietre
in cui non vive alcun seme […]
Sei più povero del buio […]
Ma tu non sei nessuno,
docile hai reso quello che fu tuo,
e non sai com'è triste cadere
fra le cose dimenticate.
Il dramma lega a sé ogni cosa, compreso il paesaggio, espande immagini cosmiche, crea grandi spazi aerei che sovrastano su «rupi, acque marine, tempeste»:
Ora coi passi spezzati
e la carne trafitta
stai solo;
O tu che non potrai tornare
al fiato lucente dei giorni…;
Ora che tu non sei
sterile il tempo consumo.
Nel 1956 Alba Florio in Come mare a riva raccoglieva nuove poesie in cui il tema centrale è quello dell'essere che ha apparenza di quiete ma la cui legge è il mutamento:
Tutto si afferma ansioso di durare:
ogni cosa che vive patisce il tempo,
con dolore si muta in altre forme.
Dopo breve stagione
ci stacchiamo dall'albero di vita,
ma nuove foglie s'aprono sui rami
e colmano di sé la nostra assenza.
Altro motivo centrale è quello della città-inferno, della disperazione della vita cantata con scavo nella parola e con grande schiarimento lirico. I lirici nuovi e i poeti ermetici sono certamente in consonanza con l'angoscia del tempo in cui sono vissuti, ma lo sono dall'alto del loro aristocratico assoluto.
Pena, male di vivere, sradicamento, esilio etc. sono esiti attraverso i quali essi scoprono (come Svevo, Pirandello scoprono nevrosi, alienazione) fratture esistenziali e sociali; sono scoperte più profonde dell'accidia di Marino Moretti, dell'aridità di Gozzano, della desolazione del sentimentale Corazzini ma la loro salvezza nella parola o nella distruzione di tutte le forme o nella divinizzazione della forma era un modo ormai esemplare, tecnicamente sapiente, si potrebbe dire ambiguo, però specifico delle esigenze borghesi, per estraniarsi, per evitare proposte, impegno, confronti.
Chi legga, invece, Lavorare stanca (1936) di Cesare Pavese vi troverà il distacco dalle analogie, dalle metafore ermetiche, la presenza degli uomini, la poesia-racconto; sicché Pavese a buon diritto poteva dire che nel tempo in cui la prosa italiana era un «colloquio estenuato con se stessa» e la poesia un «sofferto silenzio» egli discorreva «in prosa e in versi con villani, operai, sabbiatori, prostitute, carcerati, operaie, ragazzi».

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